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Tre motivi per cui anche gli uomini dovrebbero leggere romance.

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Libri di Angela

mercoledì 30 maggio 2018

Nuovo inizio, nuova storia


Per chi mi segue sulla mia pagina Facebook o sul mio profilo Instagram, il fatto che sia pronta una nuova storia non sarà una novità. In realtà il romanzo è rimasto nel cassetto quasi un anno ormai e visto che Faith e Killian desiderano fare la vostra conoscenza, ho pensato di parlarvene un po', in attesa di potervi far leggere la loro storia per intero.


Faith è una ragazza di diciotto anni, con una caratteristica piuttosto particolare: ha un quoziente intellettivo di 187. Per noi comuni mortali, la traduzione è che è un genio. Questo, però, non le ha regalato una vita facile. Infatti è pessima nelle relazioni interpersonali, piuttosto rigida ed estremamente razionale. Suo padre l'ha lasciata quando era piccola e sua madre non ha mai voluto vederla come una bambina speciale. Per questo motivo Faith odia il divorzio e desidera con tutta se stessa essere accettata per quello che è, consapevole del suo valore.


Killian ha ventitré anni ed è il ragazzo più popolare del campus. Ha le idee chiare per quel che riguarda il suo futuro: diventerà un avvocato divorzista e aiuterà le persone a uscire dalla gabbia di un matrimonio mal assortito, com'è quello dei suoi genitori. A Yale la sua fama lo precede, tanto che il suo giro di amicizie e frequentazioni è talmente ampio da far invidia a un influencer di oggi. Determinato, trasandato, sicuro di sé e attento osservatore, non è abituato a sentirsi contraddire.

Le loro strade, agli antipodi nelle premesse, sono destinate a incrociarsi nell'aula dell'unico corso che poteva vederli insieme: 

Due caratteri opposti, quando si incontrano, non possono che fare scintille.



Ecco a voi il primo capitolo... per intero ;)
Buona lettura.



Capitolo 1
Faith

Sono la prima ad arrivare. Mi piace la puntualità, denota cura e attenzione, ma dato che è da molti essere puntuali, io preferisco arrivare in anticipo. Con la lezione di sociologia del professor Weber è piuttosto facile. Inizia alle otto di venerdì mattina, ora in cui la maggior parte degli studenti, dopo i bagordi della sera prima, fa fatica a conformarsi. Ho scelto questo corso nonostante non abbia alcuna attinenza immediata con la ricerca medica, il mio campo d’interesse, perché dovevo riempire il mio piano di studi con qualche credito opzionale e questa materia conserva una base di scientificità che si sposa con la mia indole. Prendo posto in quinta fila, sistemo il mio raccoglitore per gli appunti sul piano davanti a me, insieme alla penna, tiro fuori il libro di testo e inizio a sfogliarlo. L’ho già studiato per intero, in verità, ma il punto di vista espresso dal professor Weber è stato sufficientemente interessante da stuzzicare la mia curiosità e meritare una rilettura, seppure superficiale al momento.
Sono passati due anni da quando sono entrata a Yale, una delle più giovani studentesse mai iscritte, soli sedici anni. Mia madre non l’ha presa bene quando le comunicai che avrei saltato gli ultimi anni di scuola per poter passare subito all’università. Questa scelta non rientrava nella normalità che si era figurata per me, ma rimanere oltre in quel limbo, senza realizzare uno solo dei miei interessi, non era un’alternativa accettabile. Per accontentarla, feci una sola domanda: Yale. È stata una scommessa, secondo il suo punto di vista. Secondo il mio, le possibilità che non mi ammettessero erano prossime allo zero, ma questo non gliel’ho mai detto.
Mi sono trasferita subito dopo gli esami. Vivere qui è stato immediatamente più accettabile, motivo per cui me la sto prendendo più comoda. Non ha senso affrettare qualcosa che mi fa sentire più al mio posto di qualsiasi altra l’abbia preceduta. Non vengo stigmatizzata per il mio cervello, non mi deridono per la mia intelligenza, qui si limitano a evitarmi, tutt’al più a ignorarmi, il che mi va bene, capisco di risultare strana ai loro occhi e, in fondo, non mi dispiace essere lasciata in pace, in fondo non è che io sia una di quelle persone che si possono definire socievoli, anche se non credo neanche di essere una spiacevole compagnia alla fin fine.
L’aula pian piano si riempie, gli studenti che frequentano questo corso sono tutti all’ultimo anno, il che è un vantaggio: si presume che un’età più elevata garantisca un adeguato livello di confronto su tematiche più impegnative. Il professor Weber è un signore distinto, sulla cinquantina, con i capelli brizzolati, tenuti in ordine con la riga da un lato, e una barba folta dello stesso colore che gli dona un aspetto classico, ottocentesco direi. Indossa un completo giacca e cravatta nero, con una camicia perfettamente stirata di un bianco candido che contrasta con il colore scuro dominante. La sua espressione è seria ma rilassata. Una volta entrato nell’aula, nonostante non abbia neppure aperto bocca per attirare l’attenzione, è calato un silenzio di tomba, raro persino in un’aula di Yale. Raggiunge con passo deciso la cattedra, posa il suo manuale sul piano e dà uno sguardo rapido alla platea. Non siamo tantissimi, da una prima stima distratta, direi intorno alla trentina, forse con qualche unità in meno.
«Buongiorno a tutti e benvenuti al corso di Sociologia», inizia il professore. La sua voce è scura e impostata. «Io sono il professor Weber e questo», annuncia mostrando il manuale che aveva precedentemente posato sulla cattedra, «sarà il vostro testo di riferimento. L’esame finale sarà orale e consterà di tutti gli argomenti che tratteremo in aula e di tutti quelli che troverete riportati su queste pagine e in ognuna delle dispense che vi indicherò strada facendo. La frequenza è obbligatoria, motivo per cui farò passare tra di voi questo foglio dove scriverete il vostro nome e firmerete l’ingresso a ogni lezione. Lo stesso foglio vi attenderà qui, sulla mia cattedra, al termine della stessa. Chi non avrà seguito almeno il settanta per cento delle lezioni non sarà ammesso all’esame. Per formulare la valutazione finale, terrò conto della vostra preparazione in sede d’esame, della partecipazione e dell’interesse che mostrerete in aula e della media dei voti che otterrete in ognuna delle relazioni che vi assegnerò al termine di ogni lezione. Se volete ritirarvi, questo è il momento. Ci sono domande?».
Trascorre una manciata di secondi, durante la quale qualcuno si alza e abbandona l’aula. Mi do una veloce occhiata intorno e mi rendo conto che ora siamo circa una ventina, la metà della quale sembra piuttosto convinta di voler rimanere, l’altra più rassegnata.
«Bene. Possiamo cominciare», annuncia il professor Weber soddisfatto. «Chi conosce gli esperimenti di Elton Mayo?», domanda rivolto alla platea. Alziamo la mano in cinque, io, un’altra ragazza con i capelli rossi, le lentiggini sul viso e un paio di occhiali dalle lenti tanto spesse da rimpicciolirle esageratamente gli occhi, e tre ragazzi, due mori e uno biondo.
«Lei. Qual è il suo nome?», chiede il professore rivolto al ragazzo moro dall’aspetto ordinato.
«Simon Rigg», risponde lui, leggermente imbarazzato dall’essere al centro dell’attenzione.
«Signor Rigg, cosa sa dell’effetto Hawthorne?»
«Be’, si riferisce a un esperimento condotto dallo stesso Mayo in una fabbrica della Western Electric di Hawthorne, dal quale appunto prende il nome».
«È esatto. Cosa dimostrò Mayo in quell’occasione?»
«Ehm… dunque, lui condusse degli esperimenti in cui creò un gruppo sperimentale e uno di controllo. Modificò alcune condizioni nell’ambiente lavorativo nel gruppo sperimentale per verificare la correlazione tra il miglioramento di questi aspetti e l’aumento della produttività», spiega Rigg, leggermente impacciato.
«Dimostrò tale correlazione?», domanda ancora il professore.
«Be’, sì, altrimenti non lo studieremmo, no?», cerca di allentare la pressione Rigg con una battuta, mal riuscita secondo il mio parere, ma pare che gli altri la trovino divertente.
«Veramente, da quel che mi risulta, entrambi i gruppi mostrarono un incremento della produzione», faccio notare al comico dell’anno, sistemandomi meglio gli occhiali sul naso. Lui mi guarda perplesso, come se non capisse di cosa sto parlando e io mi domando come si possa essere così disinformati quando si è scelto di seguire questo corso.
«È esatto, signorina?», interviene il professore.
«Faith Downey», rispondo tranquilla. Sapevo già di aver ragione.
«Come si spiega questo risultato inatteso?», chiede Weber rivolto alla classe. Mi impongo di dar loro qualche secondo di tempo per pensarci, ma trascorsi i primi cinque, non riesco a trattenermi. Non mi piace lasciare i discorsi a metà. In realtà non mi piace lasciare nulla a metà.
«Ciò che Mayo, insieme ai suoi colleghi, riuscì a dimostrare, fu che non era la modifica di alcune condizioni ambientali a migliorare la produttività dei gruppi, quanto piuttosto l’attenzione loro riservata per il solo fatto di essere sottoposti ad indagine sociologica. L’interesse scientifico dimostrato ha accresciuto il loro morale e la loro autostima, aumentando conseguentemente anche il livello produttivo», spiego sintetica.
«Bene, signorina Downey. Cosa ci aiuta a comprendere questo esperimento, se applicato a una macro sezione della società? In quale ambito lo trovate ancora applicabile in termini esplicativi di un fenomeno attuale?».
L’aula si immerge in un bisbiglio sommesso, finché l’altro ragazzo moro, quello seduto in modo scomposto, con i capelli ribelli e la barba incolta, non alza la mano. Il professore si accorge subito di lui e gli dà la parola con un gesto della mano.
«Mayo ci ha mostrato come il genere umano abbia continuamente bisogno di attenzione. È sufficiente notare come, al giorno d’oggi, il successo di una persona venga misurato in termini di followers su Instagram o like su Facebook».
«Mhm, ottima interpretazione, signor Hemsworth». Non mi sfugge che non gli abbia chiesto il nome. Mi volto per capire se mi sia sfuggita una sorta di etichetta attaccata su quella camicia sgualcita, ma quello che incontro è solo il suo un sorrisetto compiaciuto.
«Se la questione si sposta sui social, ritengo che non sia il bisogno di attenzione il motivo principale del loro successo», mi lascio allora sfuggire di bocca. Personalmente non amo i social e il doverli erigere a motivo di studio mi genera una sorta di orticaria fastidiosa, anche se razionalmente mi rendo conto che, in un corso di Sociologia, sia abbastanza inevitabile finire a parlare dei vari Twitter e simili.
«Ah, no?», mi sfida il signor Hemsworth, con una strana espressione sul viso. Sembra quasi che non si aspettasse la mia osservazione. Tutti gli occhi della classe si concentrano su di me, tutti lievemente allarmati. Anche il professore rimane in attesa di una spiegazione più esaustiva alla mia affermazione. Ok, se è di questo che dobbiamo parlare, parliamone.
«No, penso che vivere la propria vita attraverso un profilo virtuale sia decisamente più facile che viverla davvero. È questo il motivo del loro successo. In un mondo in cui la parola “responsabilità” fa fuggire chiunque a gambe levate, avere un profilo su Facebook garantisce la possibilità di fare e dire cose che altrimenti nessuno avrebbe mai il coraggio di fare o dire. I social non hanno fatto altro che deresponsabilizzare le persone, allontanandole in sostanza dai risultati delle loro scelte e illudendole di un successo che è in realtà effimero come l’impegno che ci è voluto per ottenerlo».
«Mi sembra che tu veda solo un lato della medaglia, Faith Downey», mi punzecchia lo studente modello, sempre più divertito dalla situazione, mentre un risolino di sottofondo si diffonde nell’aula, aspetto al quale sono piuttosto abituata, per cui non ci faccio caso.
Temo di non capire dove voglia arrivare, ma io sono certa di aver ragione. Baso ogni mia affermazione su fatti rilevabili, nulla di meno divertente. Torno a sistemarmi gli occhiali, mi cadono in continuazione, dettaglio che avevo intuito quando ne acquistai un paio tanto appariscente qualche anno fa, ma il loro scopo è essere notati e lo fanno egregiamente.
«E quale sarebbe l’altro lato?», gli rigiro la domanda.
«I social hanno anche diminuito le distanze, consentendo legami prima impossibili da mantenere», osserva tronfio e l’intera classe bisbiglia commenti di assenso.
«Mi sembra che i legami fossero molto più stabili quando si doveva fare lo sforzo di scriversi una lettera a mano e attendere mesi per ricevere la risposta, rispetto a ora, in cui basta cliccare un tasto per “piacizzare” un contenuto che non è nemmeno frutto del cervello di chi l’ha postato», ribatto per nulla intimorita dal suo inconsistente punto di vista o dal plauso che sembra generare nelle masse senza alcuno sforzo. Lui corruccia la fronte, contrariato, mentre mi squadra per qualche secondo. Non osa rispondere, probabilmente non ha proprio idea di cosa rispondere e questa sensazione non credo gli piaccia.
«Ottimo spunto di riflessione. La deresponsabilizzazione. Parliamone», riprende la parola il professor Weber, attirando di nuovo l’attenzione su di sé. L’attenzione di tutti, eccetto quella del signorino presuntuoso alle mie spalle.
«Se accettassimo il tuo punto di vista, dovremmo considerare l’uomo di oggi incapace di assumersi qualsiasi tipo di responsabilità per il solo fatto di avere molta più libertà rispetto al passato», osserva, fulminandomi con lo sguardo nero come la pece. Ha uno sguardo interessante, di certo troppo sicuro di sé, ma anche profondo. Suppongo che gli sia tornato utile in più di un’occasione, ma non voglio essere affrettata nel mio giudizio, in fondo non so ancora nulla su di lui, a parte il fatto che si è impuntato sulla ricerca di un modo per darmi torto. Povero illuso.
«In pratica è così, sì», rispondo semplicemente, spiazzandolo, tanto che sgrana gli occhi e si mette dritto sulla sedia. Il vocio di sottofondo si spegne all’istante. Ho la sensazione che nessuno qui dentro si aspettasse che la discussione imboccasse una piega simile.
«Non sono d’accordo», si ostina imperterrito. «L’uomo ha conquistato molte delle sue libertà grazie a lotte che hanno richiesto un’assunzione di responsabilità non solo per la generazione che le ha condotte, ma anche per quelle a venire. Pensa a coloro che hanno combattuto per ottenere il diritto al divorzio, solo per fare un esempio». Ecco, non poteva scegliere esempio più sbagliato.
«Non discuto sulla capacità delle precedenti generazioni di lottare, assumendosene ogni rischio, per qualcosa in cui credevano, critico piuttosto ciò che ne hanno fatto le attuali generazioni di quelle libertà. Divorziare oggi non è più un modo per tutelare se stessi da un matrimonio combinato che non si è scelto, da un coniuge violento, da una situazione di degrado, se non in una percentuale notevolmente bassa di casi nella società occidentale. La possibilità di divorziare oggi ha fatto sì che ci si sposi con leggerezza, consapevoli che, nel momento in cui ci si stancherà dell’altro, c’è sempre un modo, riconosciuto dalla legge, di tirarsi indietro. Siamo legittimati ad arrenderci alla prima difficoltà, nella bizzarra convinzione che il matrimonio sia un qualcosa di perfetto, che non richiede impegno, sacrificio, che si fonda solo su un amore etereo e inconsistente, sul quale non si deve investire nulla. Ed eccoci di nuovo alla deresponsabilizzazione. In pratica anche il divorzio fomenta quest’idea errata dell’essere umano», preciso, tornando a voltarmi verso il professor Weber.
«Questa è una stupidaggine», sbotta lui alle mie spalle. Mi rigiro perplessa. Wow, commento molto scientifico. Non può considerare una stupidaggine una costruzione fondata su basi assolutamente riscontrabili.
«Cosa?»
«È una stupidaggine», ripete, fissandomi negli occhi battagliero.
«La tua è solo un’asserzione di pancia, senza alcuna prova a supporto», mi limito a fargli notare. Lui non accenna a smettere di fissarmi. Credo di aver letto da qualche parte che fissare a lungo e insistentemente una persona non rientri nelle consuete pratiche sociali considerate accettabili dalla comune educazione. Apro la bocca, per farglielo notare, quando vengo interrotta.
«Io non credo che oggi siamo diventati incapaci di assumerci responsabilità», interviene Simon Rigg, attirando l’attenzione di tutti su di sé. Non mi piace venire interrotta.
«Lo siamo diventati? Oppure no? Rifletteteci e stilate una tesina di quattro cartelle, nella quale spiegate il vostro punto di vista, arricchendolo di dati empirici a sostegno», riprende la parola il professor Weber. «Ah, dimenticavo di dirvi che ho chiesto al rettore di poter scegliere tra voi qualcuno adatto ad assistermi nella ricerca che sto conducendo. Si tratta di un’importantissima indagine che io e alcuni miei collaboratori stiamo conducendo su una delle piaghe sociali del nostro Paese: la discriminazione razziale. Abbiamo bisogno di aiuto soprattutto nella raccolta e nella sistematizzazione dei dati, motivo per cui sceglierò tra voi qualcuno adatto al compito, che conosca sufficientemente bene la metodologia di ricerca e sappia lavorare in team. Chi non è interessato alla selezione, me lo faccia sapere entro la prossima settimana, in caso contrario, considererò ognuno di voi come un possibile candidato all’incarico». Le sue ultime parole hanno il potere di distrarmi temporaneamente dal fastidio per non aver potuto concludere la mia discussione. Un posto da assistente? Una ricerca importante? Deve essere mio.
Mentre Weber lascia l’aula, seguito a ruota da diversi studenti, io risistemo le mie cose nella borsa, pensando a come conquistare il professore in pochi decisivi passi. Voglio che non abbia dubbi su chi scegliere. Aspetto che l’aula sia vuota, poi non resisto più: «Non sta bene fissare le persone a quel modo», dico ad alta voce, incapace di trattenermi dal lasciare qualcosa di incompiuto, anche se so benissimo che ormai non mi sta ascoltando più nessuno. A questo punto, un po’ più leggera, posso guadagnare anch’io l’uscita a tornare al mio alloggio nel campus.
È stato difficile abituarsi a questa nuova sistemazione, non tanto per l’alloggio che è spazioso e dotato di ogni confort, quanto per il fatto che ho dovuto condividerlo con qualcun altro. La prima coinquilina è fuggita a gambe levate dopo una sola settimana, non ho mai capito il motivo. Ho cercato di essere chiara sulle condizioni della convivenza e non le ho mai fatto sorprese di alcun genere, quelle sì che sono destabilizzanti e fastidiose. La seconda ha resistito un mese, poi ha iniziato a trasgredire la regola più importante tra tutte: non organizzare feste o invitare sconosciuti all’interno dell’alloggio. Data la sua incapacità nell’osservare poche semplici regole, mi sono trovata costretta a notificare l’uso di sostanze non proprio legali alle autorità del campus, motivo per cui è stata espulsa.
Con la terza, le cose sono andare meglio. Edith non è intelligente come credevo necessario che dovesse essere una coinquilina accettabile, ma ha un grande pregio che supplisce questa sua mancanza. Sa ascoltare. Questo evita la maggior parte dei disagi che si erano generati con le precedenti inquiline e rende la nostra convivenza, se non stimolante, almeno accettabile. Di certo con lei mi trovo inaspettatamente bene.
«Sono tornata», annuncio, rientrando nell’appartamento in penombra.
«Oh, ciao Faith. Com’è andata la lezione?». Un’Edith allegra come al solito mi accoglie sorridente. Sta guardando la televisione, comodamente seduta sul divano a tre posti, sistemato al centro della stanza. Dal chiacchiericcio in sottofondo, deduco sia uno di quei filmetti smielati che le piacciono tanto.
«Bene», rispondo tranquilla, posando la mia borsa sul tavolinetto basso e sedendomi accanto a lei. «Cosa guardi?»
«Oh, un vero capolavoro, C’è posta per te. Meg Ryan è stupenda», si entusiasma subito alla mia domanda. Io la guardo perplessa. Non capisco questa sua fissazione con i sentimenti, l’amore, il romanticismo. Sembra che nel suo mondo non possa esistere altro e non si renda conto di quanto possano essere pericolosi. Sono armi a doppio taglio che espongono a rischi di perdita della ragione più frequenti di quelli legati ai casi di pazzia considerati patologici.
«Qual è la storia?», provo a interessarmi. Forse c’è qualche aspetto che mi sfugge e che rende il tutto degno di essere apprezzato. In realtà, dubito che ci sia, ma ho imparato che con le persone è bene lasciare un margine di confronto, anche quando sai perfettamente di avere ragione. Questa banale accortezza, le rende poi più disponibili ad aprire la mente e accettare la dura verità.
«Lei è una libraia, ha ereditato la piccola libreria per bambini, dove lavora, dalla madre. Le piace il suo lavoro e lo fa con passione, finché non scopre che il magnate delle grandi librerie Fox sta per aprire un negozio proprio vicino alla sua libreria», inizia con lo sguardo sognante.
«Immagino che all’inizio non si piacciano, ma per motivi del tutto casuali alla fine si frequentino, scoprendo di essere esattamente il perfetto completamento l’uno dell’altra. La competizione, i problemi economici, la realizzazione personale passano in secondo piano e l’amore trionfa su tutto. È così?». Non ce la faccio a lasciarle raccontare tutta la storia con la sua lentezza e l’accento posto proprio sul lato mieloso della vicenda.
«L’hai già visto?», mi chiede lei sorpresa.
«No. Non è il mio genere».
«E come facevi a sapere la storia?»
«L’ho dedotta». Dalle poche scene che mi sono passate davanti agli occhi da quando sono rientrata, dalla conoscenza del genere di film che trasformano il suo sguardo azzurro cielo in qualcosa di così brillante da essere quasi fastidioso e da una serie di altri piccoli indizi sparsi in giro, come il pacchetto di fazzoletti smezzato abbandonato sul tavolino. Spero che quelli usati siano finiti tutti nel cestino dell’immondizia, dove dovrebbero essere.
«Wow. Non so proprio come ci riesci», commenta con un accento ironico del quale non sono del tutto sicura. Devo ancora imparare a riconoscerlo bene.
«Pura applicazione di osservazione ed esperienza pregressa», rispondo, quasi disinteressata. So già che per lei è praticamente impossibile comprendere un concetto più complicato di uno dei suoi film romantici.
«Intendevo a rovinare tutti i miei film. Comunque», si riprende, afferrando il telecomando e mettendo in pausa il film per dedicarmi tutta la sua attenzione, «conosciuto il professor Weber?»
«Non sapevo ti interessassi di sociologia», confesso stupita. «Come sai il nome del mio professore?»
«Lo sanno tutti, qui al campus. È famoso per essere il professore più tosto di tutte le università del Connecticut. Ma che dico Connecticut, di tutti gli Stati Uniti. Però gira voce che abbia bisogno di un assistente, motivo per cui ho pensato che oggi sarebbe stato un bel giorno per te».
«In effetti sì, ha accennato alla possibilità di prendere un assistente tra i suoi studenti, ma lo deciderà solo al termine del corso».
«Ma tu sei un genio. Sceglierà te!», esclama sicura.
«Se la sua decisione sarà fondata su criteri di merito e capacità, allora sì, non potrà che scegliere me. Ma finché non lo farà, preferisco mantenere un profilo basso», le spiego, prima che vada dicendo ai quattro venti qualcosa di sconveniente. Vorrei prima studiare la concorrenza. Non mi aspetto grandi rivali, ma ho il sospetto che quel Hemsworth non sia da sottovalutare. Nonostante non basi le sue affermazioni su prove tangibili, ha una spiccata capacità oratoria, questo non posso negarlo.
«Come vuoi tu», mi accontenta lei. «In effetti sono rimasta sorpresa, quando mi hai detto che avevi intenzione di frequentare le sue lezioni».
«Perché mai? Sono perfettamente all’altezza di seguire quel corso», preciso, tranquilla.
«Devo ancora scoprire cosa tu non sia all’altezza di fare. È solo che non credevo che avessi un qualche tipo di interesse per la sociologia. Di solito non ti piace molto sottostare alle convenzioni sociali», osserva lei, pensierosa.
«È vero, non credo affatto nelle convenzioni sociali, ma questo non vuol dire che non sia in grado di comprenderne l’utilità. Per esempio, ora, non sono andata direttamente nella mia stanza a studiare, attività decisamente più proficua, ma mi sono fermata qui con te a fare conversazione», le faccio notare. «Probabilmente, seguire le lezioni del professor Weber mi aiuterà a capire qualcosa in più di questo mondo relazionale. Sono sempre ben disposta ad accrescere le mie competenze e conoscenze», le spiego, cercando di essere quanto più chiara possibile.
«C’è chi frequenta psicologia per psicanalizzarsi e chi lo fa con sociologia. Posso capirlo», sentenzia con l’aria di una che ha capito tutto della vita.
«La psicologia non è una scienza. La sociologia sì. E in ogni caso, non la frequento per migliorare i miei rapporti sociali. Il mio è puro interesse scientifico», preciso, non so neppure io il perché. In realtà so benissimo che la mia scelta è stata dettata principalmente dal bisogno di capire le relazioni tra le persone e i meccanismi che le governano.
«Certo, certo. Ah, poi avrei un piccolo favore da chiederti», cambia improvvisamente discorso. La sua espressione si fa innocente, ma non mi guarda più negli occhi.
«Dimmi pure», mi sistemo meglio sul divano e sollevo gli occhiali sul naso.
«Ecco, vedi… dopodomani pomeriggio avrei le prove di teatro, hai presente il Macbeth che dobbiamo mettere in scena?». La sta prendendo alla larga.
«Sì, ricordo che me ne avevi parlato la settimana scorsa, interrompendo la mia lettura de “Il Capitale” di Karl Marx».
«Sì, stavi leggendo un librone immenso quando te l’ho detto. Be’, il fatto è che non ho ancora avuto tempo di preparare la parte come si deve e avrei bisogno di provare», cerca di spiegarsi, ma io non ho ancora capito dove vuole andare a parare.
«Non ti ho mai impedito di provare, a meno che tu non abbia un ruolo che preveda forti urla in spazi stretti. Deve strillare tanto il tuo personaggio?», domando pratica.
«No, no, non devo urlare, è solo che dovrei provare insieme ai miei colleghi, sai per studiare bene gli attacchi, per capire se ci ritroviamo nei rispettivi ruoli…», continua a girarci intorno.
«Non ti ho mai impedito neppure di provare con i tuoi colleghi. È un’opera importante, immagino dobbiate porre una particolare attenzione alle pause e ai diversi interventi. Provare in gruppo mi sembra la soluzione più logica».
«Ok, sono felice che la pensi così», si rasserena subito.
«Non era una novità. Quello che non capisco è quale sarebbe il favore di cui avresti bisogno da me».
«Ah, sì», sembra quasi che qualsiasi cosa fosse, le sia sfuggita di mente per poi ricomparire all’improvviso. «Be’, nessuno ha l’alloggio disponibile per le prove e così avevamo pensato di riunirci tutti qui».
Rimango ferma a guardarla per qualche secondo. Non sono sicura di aver capito bene le parole che sono appena uscite dalla sua bocca.
«Non sarà per molto tempo, solo due o tre ore al massimo, domani pomeriggio. Nessuno urlerà, promesso», cerca di convincermi.
«No, no, no», è la mia risposta secca. «Non esiste che qualche estraneo metta piede qui dentro». Ho già faticato ad ambientarmi in un posto nuovo, per crearmi la mia routine, non sopporterei di vedere il mio rifugio preso d’assalto da sconosciuti.
«Faith, non te lo chiederei se avessi un’alternativa, lo sai benissimo», mi supplica, incrociando le dita e avvicinandosi a me col suo sguardo da cerbiatto.
«No, no, no», ripeto, quasi spaventata alla sola idea.
«Potresti chiuderti nella tua stanza. Non ci sentiresti neppure», insiste lei. «Oppure potresti uscire, andare a studiare in biblioteca. Sai, il mondo pullula di gente in salute che esce, che vive all’aperto, fuori casa. Fuori è fantastico».
«Non dire stupidaggini. Se fuori fosse così fantastico come dici, perché l’uomo ha cercato per migliaia di anni la sua dimora dentro?», non può ignorare secoli di evoluzione.
«Oh, Faith, ma è ovvio, per dare lavoro agli architetti d’interni», minimizza la cosa con un gesto veloce della mano. «Ma prometto che pulirò tutto dopo. Disinfetterò da cima a fondo, farò arieggiare il salotto, non rimarrà traccia neanche di un odore sgradito, nulla. Ti prego!». Accidenti. C’è una voce dentro di me che in questo momento sta urlando di non farle fare una cosa del genere. Vorrei tanto darle ascolto, ma non so il perché, alla fine non lo faccio. Abbasso lo sguardo sulle mie ginocchia, stringo le mani a pugno e prendo un respiro profondo.
«Veramente non hai altra alternativa?»
«Veramente», risponde speranzosa.
«E disinfetterai tutto?»
«Tutto. Promesso».
«Due ore, non di più. Uscirò a prendere freddo alle quindici e rientrerò alle diciassette e un quarto. Non voglio vedere nessuno», le intimo, puntandole un dito ammonitore davanti agli occhi.
«Non vedrai nessuno!», promette con una mano sul cuore. «Grazie, grazie, grazie!!!», sorride e allarga le braccia, pretendendo un abbraccio. Nooo, questo è troppo. Mi alzo in fretta, prima che riesca ad agguantarmi nella sua presa.
«Prego», le dico soltanto, prima di riprendere la mia borsa e rifugiarmi nella mia stanza. La convivenza è davvero difficile a volte.


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giovedì 24 maggio 2018

3 film d’amore con Dermot Mulroney che dovete vedere almeno una volta nella vita


Amate leggere d’amore? Vi piacciono i romanzi rosa e le storie a lieto fine? Sognate ancora di vivere la vostra favola personale e credete nel principe azzurro?
Bene, dopo il Royal Wedding, è il caso di rispolverare il nostro animo romantico e per farlo, a parte leggere e rileggere i nostri libri preferiti, possiamo goderci anche qualche bel film.
Ieri sera ne mandavano uno su canale 5 che io personalmente ho adorato e riguardo sempre con piacere, con Dermot Mulroney, così ho pensato di suggerirvene tre con lui come protagonista che, forse, potrebbero incontrare il vostro favore da lettrici di romance.



1.      The Wedding Date (l’amore ha il suo prezzo): Kat, invitata alle nozze della sorellastra, scopre che a fare da testimone allo sposo altri non è che il suo ex fidanzato, Jeffrey, che l’aveva mollata due anni prima e per il quale lei crede di provare ancora qualcosa. Per riuscire a ingelosire Jeffrey, Kat decide di presentarsi al matrimonio con Nick, un gigolò assoldato per l’occasione. Peccato che le cose non andranno proprio come lei aveva previsto. Una commedia davvero meravigliosa, ironica, frizzante e romanticissima. Se amate il genere, non potete non godervela;


2.      Griffin e Phoenix: rimanendo in tema Mulroney, ecco un’altra storia che merita tantissimo. Lui è Henry Griffin, un uomo divorziato con dei figli che vede di rado. Dopo che i medici gli hanno diagnosticato un cancro incurabile, Griffin decide di vivere come gli pare il poco tempo che gli rimane, per cui lascia il lavoro e si trasferisce in un appartamentino per coronare il suo sogno di scrivere un romanzo. Naturalmente, per portare a termine il compito che si è imposto, si iscrive a un corso universitario, dove però conosce Sarah Phoenix, una docente bella e anticonformista. Griffin se ne invaghisce subito e si lascia andare con lei, finendo con l’innamorarsene. Il punto è che anche Sarah ha il cancro. Ve lo dico, di solito io non guardo i film dove ci sono malati di malattie incurabili, ma questo è davvero un piccolo capolavoro, un po’ per i protagonisti, divertenti, ironici, elettrizzanti, un po’ per la delicatezza con cui viene affrontato il tema. Guardatelo, non ve ne pentirete;


3.      Quella cosa chiamata amore: e qui ci fiondiamo nel mondo della musica, country per la precisione. La protagonista è Miranda, una giovane ragazza che aspira a diventare una cantante country. Per coronare il suo sogno, lascia New York diretta in Tennessee, la patria del country, dove si tiene una sorta di festival per nuovi talenti. Dopo un lungo viaggio in autobus, riesce ad arrivare a Nashville e a trovare lavoro come cameriera nel bar di Lucy, la proprietaria. Qui, Miranda incontra molti altri giovani, arrivati in città con il suo stesso obiettivo, tra cui anche Kyle e James, due musicisti che si innamorano entrambi di lei. Se amate la musica e le atmosfere country, questo è il film che fa per voi.


martedì 15 maggio 2018

I vizi di noi lettori


A chi non piace leggere? Be’, se siete qui, credo che nessuno abbia alzato la mano.
Oggi vi voglio parlare del nostro essere lettori, con i piccoli vizi che ci prendono quando si tratta dei nostri amici libri. Io vi dirò i miei, vediamo se vi ritrovate anche voi ;)



·         Dare in prestito un libro: la risposta sarà quasi sempre NO. Siamo gelosi dei nostri libri, li trattiamo con un riguardo che fatichiamo a vedere negli altri. E poi si sa, i libri si offendono se li diamo in prestito, quindi perché macchiarci di questa gravissima colpa?

·         Non riuscire a smettere di leggere un libro: quante volte ci siamo detti: “solo questo capitolo e poi chiudo”? E quante volte ci siamo riusciti? Personalmente continuo a dirmelo, salvo poi non riuscirci quasi mai.
·         Le orecchie, che orrore: il segnalibro è il nostro migliore amico, ne abbiamo diversi, li conserviamo ovunque e, quando non ne abbiamo uno sottomano, lo creiamo dal nulla, basta un pezzetto di carta, un post-it, qualsiasi cosa, ma le orecchie… MAI!

·         Non c’è più spazio nella libreria: io ho inondato la scrivania, il comodino e tutti gli angoli ancora disponibili della casa. Nella prossima vita, abiterò in una reggia stile castello della Bestia, ma nel frattempo le mie librerie non bastano, quindi qualunque posto va bene.

·         Lunghe liste di libri da leggere: abbiamo un trilione di libri che aspettano nelle nostre non-librerie (perché le librerie sono ormai tutte occupate), eppure non riusciamo a trattenerci dallo sbirciare le nuove uscite, con il risultato, piuttosto prevedibile, tra l’altro, che ne troviamo puntualmente qualcuno che vorremmo leggere. E quindi? Partiti per l’acquisto compulsivo… poi dove li mettiamo è un altro discorso.
·         Leggere l’ultimo paragrafo: questo lo so, non lo fanno tutti. Molti hanno il terrore dello spoiler, il che per alcuni generi è in agguato anche prima dell’ultimo paragrafo. Io, invece, ho questo vizio: leggo l’ultimo paragrafo di un libro, prima di iniziarlo (lo faccio solo con i cartacei, con gli ebook è più complicato), mi consente di affrontare la lettura più rilassata, almeno se non è un finale criptico… perché sennò ansia portami via.

·         Diventiamo un po’ asociali: eh sì, capita, soprattutto quando siamo alle prese con una lettura che coinvolge. Non vogliamo essere disturbati da niente e nessuno, vorremmo rimanere nel nostro mondo libroso finché non avremo terminato la lettura e il mondo reale… be’, quello vada pure avanti senza di noi.


E voi? Quali vizi da lettori avete? Vi riconoscete in qualcuno di questi?

mercoledì 9 maggio 2018

Perché per scrivere è importante leggere.



Negli ultimi anni sarete sicuramente incappati in una di quelle statistiche scoraggianti che dimostrano come, con il tempo, la percentuale di lettori stia vertiginosamente scendendo nel nostro Paese. Se ne parla spesso, ma il dato è in netta controtendenza con quello relativo al numero di libri pubblicati. Qualcuno forse se ne sarà già reso conto, ma più i lettori diminuiscono, più gli scrittori aumentano. Strano eh?
Senza volermi addentrare troppo in disquisizioni inerenti il crescente numero di scrittori (o aspiranti tali), mi piacerebbe concentrare la vostra attenzione su un dettaglio: perché per scrivere è importante, prima di tutto, leggere.
Mi è capitato di incontrare scrittori/scrittrici che, con una punta di orgoglio, mi hanno rivelato di leggere poco, perché: chi ha tempo di farlo, tra il lavoro, la stesura di uno/due libri all’anno, la famiglia, lo svago, le uscite con gli amici. Be’, il tempo appartiene a ognuno di noi e ognuno di noi decide come è meglio spenderlo, su questo non ci piove, ma una domanda mi è sorta spontanea: come saranno quei uno/due libri all’anno scritti da qualcuno che non legge?
Per curiosità ne ho acquistati un paio… non di più e potete immaginare perché.
Quindi, ecco a voi i motivi per cui non è solo importante, ma diventa fondamentale leggere, soprattutto per chi è o aspira a diventare uno scrittore.



1.      Leggere aiuta ad arricchire il proprio vocabolario. Forse non ce ne rendiamo conto, ma nella nostra quotidianità usiamo un numero piuttosto limitato di termini, un numero che spesso e volentieri non è sufficiente per esprimere al meglio quello che vorremmo dire in un libro. Come ovviare al problema? O studiate a memoria tutto il vocabolario o leggete libri.
2.      Leggere accresce l’empatia. Immergersi nelle vite degli altri, vedere il mondo attraverso gli occhi di personaggi diversi, con emozioni, vissuti e sensazioni diverse, non serve solo a estraniarsi dallo stress della propria quotidianità, ma ha anche l’insospettabile pregio di allenare la nostra capacità di empatia. Avere empatia ci aiuterà anche a vivere meglio e con più consapevolezza le nostre relazioni, quindi perché non dedicarci un po’ a questa capacità?
3.      Leggere ci evita di essere scontati. Quante volte avete buttato giù un’idea che vi sembrava eccezionale, vi ci siete dedicati, l’avete cullata, scritta, riletta e… vi siete accorti che era troppo scontata? Capita, ma c’è una soluzione: leggere. Variate le vostre letture, non leggete sempre lo stesso genere, ma cercate titoli che vi ispirino anche di altri generi. Se vi piace il romance, buttatevi su qualcosa di narrativa, su un buon fantasy con una storia d’amore di sfondo, se vi piacciono i gialli, leggete anche qualche thriller, qualche horror, qualche racconto del mistero. Non limitatevi. Leggere altro non vuol dire cambiare la propria predilezione per un genere, significa solo attingere da altre prospettive e scoprire che ci sono altre vie, meno scontate, per raggiungere la stessa meta.

Dunque: buone letture sia a chi ama leggere e basta, sia a chi ama leggere e scrivere, ma soprattutto a chi ama solo scrivere.

martedì 8 maggio 2018

Tre motivi per cui anche gli uomini dovrebbero leggere romance.


Questa è una domanda che mi sono sempre fatta: perché il genere rosa è l’unico connotato per essere appannaggio di un solo genere, quello femminile? Perché gli uomini non possono leggere d’amore? Ok, forse il genere romance, con il tempo, si è parecchio caratterizzato per essere più una lettura femminile, eppure ci sono almeno tre motivi per cui anche gli uomini dovrebbero leggere romance.


1.      Avete presente il detto: gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere? Credo che esista anche un libro con questo titolo. In pratica, pare che uomini e donne provengano da due pianeti differenti, ragion per cui alle volte diventa complicatissimo capire gli uni le altre. Be’, il genere romance è una porta su Venere, su questo immenso mondo femminile, a volte sclerotico, a volte tenero, che gli uomini fanno fatica a comprendere. Quando lei dice “no” vuol dire “sì” e quando dice “sì” vuol dire “no”? Mah, io non ne sarei tanto sicura. Quello che vuole una donna è forse un tantino più complesso di così e, ancora forse, leggendo il libro giusto diventerà più semplice capirlo;


2.      I romance sono scritti prevalentemente da donne e sono letti prevalentemente da donne. Ma sia chi li scrive sia chi li legge, il 99% delle volte, muore dietro a lui: il protagonista maschile. Perché? Semplice, perché lui è l’idealtipo che ogni donna sogna al suo fianco. Come deve essere l’uomo ideale? Leggete un romance e scoprirete quali sono gli aspetti ai quali le donne danno maggior importanza;
3.      L’ultimo motivo è forse il più serio dei tre. Gli uomini dovrebbero leggere romance per riscoprire il proprio lato sentimentale. Il romanzo rosa, in fondo, non è altro che una concentrazione di emozioni, sensazioni, sentimenti. A noi donne fa bene dedicarci a questo lato di noi, ci rende più capaci di amare, di perdonare, di sopportare, di credere, di combattere. Qualsiasi cosa vogliate dire, il sesso forte non è quello maschile (e non parlo di muscoli), ma quello femminile. Perché? Potrei banalmente riassumere la questione con una sola parola: esperienza. La storia ha insegnato alle donne a combattere per ogni traguardo, a fare pace con le proprie necessità, con le loro lacrime, a non vergognarsi delle loro cadute. Agli uomini, invece, è stato insegnato l’esatto opposto: a ottenere più facilmente ciò a cui ambivano, a reprimere i propri sentimenti, a vivere la vita con distacco. Ebbene, leggere un romance potrebbe insegnar loro di nuovo a riscoprire il loro lato sentimentale, perché non è una lacrima versata che rende un uomo meno uomo, lo rende solo più umano.
Vi ho convinti? Cosa ne pensate?