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Tre motivi per cui anche gli uomini dovrebbero leggere romance.

Questa è una domanda che mi sono sempre fatta: perché il genere rosa è l’unico connotato per essere appannaggio di un solo genere, quello ...

Libri di Angela

lunedì 21 gennaio 2019

Cosa vuol dire attendere l’uscita di un mio libro.



Domani uscirà il mio ultimo romanzo, “L’amore non ha ragione”. 



Ma come ci si sente quando sta per uscire un libro scritto da te? Quali sensazioni, quali emozioni ti invadono? Qualcuno se l’è mai chiesto?
Be’, io non sono una di quelle autrici affermate, quelle delle quali chiunque leggerebbe anche la lista della spesa (l’ho letta spesso questa dichiarazione). No, io sono una scribacchina che tenta ancora di inseguire il suo sogno di carta e sentimento e che, nel suo piccolo, prova a migliorarsi pagina dopo pagina. Sono pochissimi i lettori (in realtà lettrici) che attendono impazienti il mio prossimo romanzo. E quindi? Come ci si sente quando questo “prossimo romanzo” sta finalmente per uscire?
In primis una punta di orgoglio, perché sì, un’altra storia è terminata, è stata limata, tagliata, ricucita, pensata, ha vissuto il suo periodo di incubazione e ora è finalmente pronta a vedere la luce.
Subito dopo arriva l’ansia. Per quelle come me, il pericolo del flop è sempre dietro l’angolo. Questo mondo non è fatto per i piccoli, di solito finiscono divorati. Ma non è il flop il vero problema, voglio dire: in fondo ci sta che nessuno sia attratto dal mio nome messo lì, in copertina, dalla sinossi o dalla cover.
La mia paura più grande, che si ripresenta pubblicazione dopo pubblicazione, è quella di non arrivare. Avete presente quando state parlando con qualcuno, volete veramente essere capiti, cercate le parole giuste per esprimere il vostro punto di vista, ma niente? L’altro pare ascoltare un’altra lingua, altre parole, altri pensieri. E voi ci provate, ci riprovate, ci sperate e, alla fine, vi rendete conto che non c’è nulla da fare, che forse non siete in grado di trasmettere quello che avete nella mente. Be’, è di questo che ho paura.
Quando scrivo una nuova storia, c’è sempre un messaggio dentro, qualcosa che vorrei comunicare a chi la leggerà. Di solito l’intento principale è far sorridere chiunque decida di darmi una possibilità, farlo/la emozionare, fargli/le trascorrere un paio d’ore in compagnia di personaggi piacevoli, ironici, a volte irriverenti, a volte testardi. Poi c’è la voglia di farvi affezionare alle pagine, non per forza alle mie, ma attraverso le mie a quelle di altri, come è capitato a me.
L’uscita di un nuovo romanzo è insieme speranza e paura di essere delusa, ma la speranza è ancora un pizzico di più, per cui eccomi di nuovo qui, con un’altra storia, nuovi personaggi ai quali ho affidato il compito, arduo mi rendo conto, di entrare nei vostri cuori.
Ci riusciranno?
Solo voi potrete dirmelo.
Se vi va, vi aspetto domani, con la versione e-book de “L’amore non ha ragione” in promo su amazon per i primi tre giorni, e il 14 febbraio (San Valentino mi porterà bene?) in libreria con il cartaceo.
Io ci voglio credere, ancora una volta.

P.s. Anche questa volta ho un particolare debito di riconoscenza verso alcune ragazze, le blogger. Ammetto di essere stata un po’ rompiscatole, di aver chiesto loro tanto, sia dal punto di vista dell’impegno che da quello del tempo, e ammetto di essere stata sorpresa di nuovo, dalla loro disponibilità, dalla loro passione per i libri, forse anche dalla loro capacità di sopportazione in effetti. È grazie a loro se potrete conoscere meglio questa nuova storia, se forse deciderete di regalarvela. Grazie mille ad Asia, Martina, Franci, Miriam, Stefania (per la promessa che ti ho fatto, ci sto lavorando 😉 ), Debora, Sara, Manuela, Chiara, Lorena, Michela, Sonia, Manuela, Chiara, Veronica, Deborah, Ilenia e Marianna.



venerdì 11 gennaio 2019

L'affaire Moix


Ultimamente, ve ne sarete accorti, si fa un gran parlare di un certo Yann Moix. La Francia, a quanto pare, è destinata a far conoscere alcune delle sue personalità oltralpe solo grazie a eventi spiacevoli (così fu per lo Charlie Hebdo, così è per Moix).
Perché si parla tanto del signor Moix? Chi è il signor Moix? Non so quanti di voi lo conoscessero prima, io no, mea culpa, perché a quanto pare si tratta di un scrittore anche di un certo pregio. Ottimo esordio e qualche altra perla letteraria che potrebbero risultare letture piacevoli per gli amanti del genere. Ma non se ne parla per il suo estro nella scrittura, quanto per una sua affermazione, rilasciata in occasione di un’intervista per l’uscita del suo ultimo libro.
In sostanza, il signor Moix ha affermato di non poter uscire con una donna di 50 anni (ergo una sua coetanea), in quanto non la troverebbe attraente, troppo vecchia per i suoi gusti. La sua predilezione ricade sulle venticinquenni, se asiatiche meglio.
Ora, posto che chiunque è libero di esprimere le sue opinioni, intelligenti, stupide, sagaci, provocatorie, idiote, prive di senso, non fa alcuna differenza, il punto sul quale vorrei portare la vostra attenzione è un altro.
Dopo tale dichiarazione, che ha trovato posto sulle più importanti testate giornalistiche internazionali, molte donne cinquantenni, alcune celebri, altre meno, hanno inondato i social di fotografie dei loro corpi, nudi o quasi, per dimostrare al succitato signor Moix quanto maschiliste, sessiste e soprattutto infondate fossero le sue parole.


Donne (sì, ora parlo con voi), vi invito a non guardarvi solo come corpi (che, come vorrebbe lo stesso Moix, dovrebbero essere piacenti, tonici, freschi, perfetti). Noi non siamo solo esteriorità. Noi siamo quelle che indossano le smagliature dopo la gravidanza con un certo orgoglio, siamo quelle che puntano ad avere un bel cervello più che un bel fisico, siamo quelle che cercano la sostanza, l’arrosto per intenderci, del fumo non sappiamo che farcene, siamo quelle combattono da secoli per vederci riconosciuto il nostro valore a prescindere dal nostro aspetto. Se siamo alte, basse, magre, grasse, giovani, vecchie, con le cosce flaccide o toniche, chi se ne importa no?
Personalmente, vi invito a non cadere nella trappola del maschilismo, che vorrebbe che i vostri corpi rispondessero a determinati canoni (determinati da chi? Vi chiedo io), non siete perfette, siete speciali, e non lo siete per il vostro aspetto, ma per il vostro cervello. La prossima volta, inondiamo i social di quello 😉



Semmai dovesse assalirvi di nuovo il dubbio su come meritereste di essere guardate da un uomo, prendete tra le mani un buon romance e, semmai, fatelo leggere anche all’uomo che vorreste al vostro fianco

mercoledì 24 ottobre 2018

La nostra lingua


L'altro giorno mia sorella ha richiamato la mia attenzione su un post da lei visto su un gruppo facebook di scrittori e aspiranti tali.
In sintesi, un utente postava un breve stralcio (4/5 righe) di un suo scritto, chiedendo al gruppo pareri spassionati sul suo stile.
Lo stralcio era questo:

Gli lesse il suo lavoro. Evidentemente per un gentile riguardo, qualche parola, qualche frase di Carlo era conservata, ma parole e frasi tanto poco importanti ch'egli non seppe essergliene grato, precisamente quelle parti di cui più gli sarebbe importato non avevano trovato grazia.
La maggior parte degli intervenuti nei commenti, che io non riporterò, hanno trovato lo stralcio farraginoso e di difficile comprensione. Alcuni hanno sospettato che fosse stato tradotto, forse con Google traduttore, da un testo inglese, altri hanno notato una contraddizione in termini, quasi tutti hanno trovato il testo di difficile comprensione.

L'estratto di cui sopra è tratto da "Una vita" di Italo Svevo.

Come si è evoluta la diatriba sul gruppo, trovo sia un argomento poco interessante e credo anche che la maggior parte di voi l'abbiano immaginata.
Ciò che mi ha fatto riflettere è stata la reazione degli utenti.

Italo Svevo si studia sui libri di scuola, il pregio della sua letteratura è cosa acclarata, eppure un suo scritto, ai giorni nostri, risulta essere farraginoso, contraddittorio e incomprensibile.



Di qui il mio pensiero alla nostra amata lingua. Davvero siamo destinati ad andare verso una semplificazione della scrittura, niente estro, niente complessità, niente frasi che superino le tre parole? Davvero soggetto, predicato e complemento oggetto saranno più che sufficienti per dire tutto del nostro mondo?

Qualche tempo fa lessi un articolo in cui un maestro elementare si era preso la briga di confrontare i temi dei propri alunni di quinta elementare con quelli di loro coetanei del 1950. Le conclusioni a cui è giunto sono state drammatiche. Un bambino di dieci anni, sessant'anni fa, aveva una proprietà di linguaggio e una capacità espressiva di gran lunga superiore a un suo coetaneo di oggi.
Immaginate di chiedere a un ragazzino o a una ragazzina di 12/13 anni di scrivere un diario. Immaginate di confrontarlo con quello di Anna Frank (per sceglierne uno conosciuto dai più). Cosa vi aspettereste di notare?

In un Paese dove i tempi verbali stanno scomparendo, le sfumature svaniscono, la lingua tende a un'economicità che la snellisce, strappandole tutto ciò che risulta superfluo, le parole più complicate spariscono e tutti i neologismi verbali finiscono in "are", il nostro internet si riempie di professori di italiano, di docenti della scrittura.

Con il nostro credere di essere arrivati, non finiremo per buttar via la parte più bella della nostra lingua? Inseguendo l'immediatezza, senza fronzoli, non perderemo l'arte della decorazione?

Ammetto di aver paura dei neuroni che si spengono, dell'incapacità di sforzarsi nel comprendere qualcosa solo perché risulta più complicato del previsto. Continuo a credere che l'ignoranza generi mostri e che l'incapacità di comprensione di un testo ci renda anche incapaci di comprendere la complessità del mondo.

Se una massa ignorante, che non fa domande, che crede a tutto, è di certo più facile da gestire, un'aggregazione di persone, con le loro individualità, i loro bagagli, le loro conoscenze, le loro diversità, è l'antidoto.
Coltiviamo la cultura, prendiamoci cura della nostra lingua, non rendiamola più facile, non gioverebbe a noi come non gioverebbe ai nostri figli. Desideriamo per quelli che verranno dopo di noi la stessa complessità che hanno avuto i nostri padri, perché è questa stessa complessità che ci arricchisce, che regala varietà a un mondo che tende all'omologazione.

Leggete e fate leggere i vostri figli, non perché è un compito per la scuola, ma per allenare il loro cervello alla comprensione che si trasformerà in empatia per il domani.

martedì 14 agosto 2018

Primo Festival Italiano del Romance

E in questa calda settimana di Ferragosto arrivano le notizie più succose.
Quali?
Eccole: grazie a Lidia Ottelli, al suo blog Il Rumore dei Libri, alle sue infaticabili collaboratrici, a tutte le blogger, i grafici, gli organizzatori che hanno creduto in questo sogno, il 29 giugno 2019, a Milano, ci sarà la prima edizione del Festival Romance Italiano.
Oltre 150 tra autrici e autori, tantissime sorprese, omaggi, feste, firmacopie, ma soprattutto incontri, sorrisi e abbracci (perché noi lettori siamo fatti così, ci affezioniamo), tutto in un solo posto.
Tra gli autori presenti, ci sarò anch'io (fa uno strano effetto anche a me, ma la grafica qui sotto funziona meglio di un pizzicotto 😋).

Vi terrò aggiornati sull'evento, mano a mano che ci saranno novità, voi intanto non prendete impegni, perché non potete mancare 😉

sabato 21 luglio 2018

A proposito di #PinkPride


Interrompiamo i consueti programmi per una riflessione in merito al caso “leggere romanzi rosa”, che, a quanto pare, ha infastidito parecchi.
Cercherò di essere breve, ma questa volta ho voglia di dirvi cosa ne penso io.
Ultimamente sono usciti alcuni articoli, scritti da donne, dai quali emergono una serie di punti che meritano una riflessione in più. Vediamoli insieme:

1. Il ROMANCE è un genere di serie B. Secondo il punto di vista di giornaliste e blogger schierate contro il LeggereInRosa, il romance non è affatto equiparabile agli altri generi di romanzo. Perché? Forse perché nei romanzi rosa si parla d’amore, o forse perché il punto di vista, il più delle volte, è quello femminile. Loro sostengono, banalmente, che da questo genere di romanzi non è possibile cogliere spunti di riflessione.

Io parlo della mia esperienza, in virtù di una VISIONE POPPERIANA (deformazione professionale) che vuole che l’eccezione non confermi affatto la regola, anzi la falsifichi. Nei romance ho trovato riferimenti ai grandi classici, riflessioni filosofiche, sociologiche, morali sui temi più disparati, dall’amore al pregiudizio, dalla diversità di estrazione sociale, di colore della pelle, di nazionalità, al superamento dei clichè e dei luoghi comuni che riguardano il ruolo della donna, le sue ambizioni, i suoi desideri.

2. Il RARE (l’evento dal quale tutto è partito) è un evento “allucinante”. Perché? Forse perché vi si radunano fan da tutto il mondo, forse perché la maggior parte di queste fan sono donne.

Come se non fosse la stessa cosa con gli appassionati di concerti, di videogames o di attori di Hollywood. Perché piantare una tenda fuori da un’arena tre giorni prima del concerto del tuo idolo ha senso ed emozionarsi davanti a un’autrice che con il suo libro ti ha trasmesso gioia, tristezza, malinconia, gelosia e chi più ne ha più ne metta diventa una cosa allucinante?

3. Le LETTRICI di ROMANCE sono CONTADINOTTE, CASALINGHE, DEPRESSE, INFELICI, INAPPAGATE, paragonate a delle PELLEGRINE alla ricerca di un qualcosa che dia senso alle loro vite vuote.

In questo caso, contesto innanzitutto il diritto, che non c’è, di esprimere giudizi di merito su persone vere. Le lettrici di romance possono fare le contadine, le casalinghe, possono trovarsi in un momento della loro vita non felice, essere alla ricerca di una realizzazione personale o professionale (e in Italia è certamente più che probabile), ma non è questo che le qualifica. Le lettrici di romance possono essere al contrario donne felici, sposate, innamorate, con o senza figli, donne in carriera, con lauree e master o con la terza elementare, ma non è questo che le qualifica. Le lettrici di romance sono persone e in quanto tali vanno RISPETTATE. Hanno forse gusti che non incontrano il vostro favore, e allora? Non credo che loro se ne facciano un problema. Lo è per voi?

4. Leggere LIBRI DI POCA SOSTANZA e con CONTENUTI STUPIDI non aiuta a migliorarsi.

Su questo punto avrei molto da dire, ma ho promesso di essere breve, quantomeno di provarci, quindi dirò solo questo: LEGGERE ARRICCHISCE. Leggere romanzi, riviste, saggi, classici, gialli, fumetti, romance, qualsiasi tipo di lettura ha lo straordinario potere di arricchire chi la fa. Persino leggere lo stesso libro dieci volte può arricchire quanto leggerne dieci diversi. Questo è stato dimostrato scientificamente, non sono io a dirlo. Se poi qualcuno ha da dire che i libri di oggi sono più semplici, dal punto di vista della scelta lessicale o della scelta del tema, rispetto a quelli di una volta, potrei anche essere d’accordo, ma ribadisco: i tempi cambiano. Un tema scritto da un bambino di dieci anni di sessant’anni fa era mille volte meglio di quello di uno di oggi. La qualifica di quinta elementare di sessant’anni fa aveva tutto un altro valore di quella di oggi. E allora? Come risolviamo questo oggettivo problema di fondo? Criticando? Penso che non sia costruttivo. Libri con un lessico semplice hanno il potere di avvicinare alla lettura coloro che non hanno mai aperto un libro in vita loro, di far scoprire la meraviglia delle parole scritte, di nuovi termini, di diversi modi di dire le cose, di descrivere le emozioni. Questo è un male? Non credo, non in un Paese dove la percentuale di lettori è tra le più basse d’Europa.

5. Le TRAME dei ROMANCE sono tutte UGUALI, in pratica si tratta della classica donzella sottomessa che accetta di buon grado di diventare l’oggetto sessuale del bad boy di turno.

Qui si tratta di campionamento. Se si intende attuare una generalizzazione simile senza un campione rappresentativo, si cade inevitabilmente in errore. Esistono romance con questo tipo di trama, ma sono tutti? Io ne leggo diversi, nella mia libreria se ne raccolgono a decine, eppure credo che solo due rispondano a questo tipo di descrizione. Tutti gli altri parlano di donne forti, donne capaci, donne appassionate. C’è l’analista di banca, la personal shopper, la chef, la libraia, la studentessa universitaria, l’avvocatessa, l’artigiana di cappelli e così via. Gli uomini sono il loro contraltare, non i loro dominatori.

6. Dai romance emerge una sorta di INDOTTRINAMENTO ETEROSESSISTA E PATRIARCALE.

Sì, è stato detto anche questo. Basterebbe il fioccare di titoli M/M per falsificare quest’affermazione, ma io aggiungo che il romance è uno di quei generi che si è evoluto con il tempo, insieme alla società, diventandone uno specchio, a volte spaventosamente fedele. La figura della donna, che tanta strada ha fatto negli anni, emancipandosi, è la protagonista in questo tipo di letteratura (e sì, ho scritto letteratura e lo ribadisco: letteratura). Siamo passate dalle donne sottomesse, desiderose di contrarre un buon matrimonio, realizzate nel loro essere mogli e madri, a donne strong, in carriera, che lottano e dimostrano le loro qualità sul lavoro e nella vita sociale. Le donne di oggi conservano le loro debolezze, i loro desideri, le loro velleità, ma si realizzano prima in loro stesse e poi in relazione con gli altri (vedi papabile marito). Se si sono letti solo romance di un certo periodo storico, si sono trovati solo certi modelli di donne e solo certi ideali. Se, al contrario, si continuano a leggere romance, si troveranno personaggi omosessuali (come il mio Ernest, che per altro è e rimane ancora il mio personaggio preferito), così come coppie in cui il ruolo dominante ce l’ha la donna e non più l’uomo. Come sopra, si tratta di campionamento.

7. Il MESSAGGIO cardine di ogni romance è quello di ANNULLARSI PER UN UOMO.

Direi che le osservazioni del punto 6 possono risultare esaustive anche per questo punto. Con l’aggiunta che il desiderare l’amore, per una donna, non la rende meno donna, meno meritevole di rispetto e dignità. Di certo non si parla di annullamento.

8. Le COPERTINE.

Torna il discorso del guardare solo una delle mille sfaccettature del genere. Esistono, sì esistono, copertine con il bel uomo a petto nudo, con addominali da urlo e, tra le braccia, la fanciulla dalla fluente chioma bionda. Ma sono tutte così?










Notate qualcosa?


In definitiva, per concludere, siamo passati dalle storie di donne raccontate da uomini (vedi Madame Bovary o Anna Karenina), dove la sorte dell’eroina di turno difficilmente era felice, alle storie di donne raccontate da donne (Jane Austen ne è stata l’antesignana e forse anche per questo viene oggi presa a modello da molte autrici di romance). Il romance evolve e con esso le sue storie, le sue lettrici e le sue autrici. Se qualcuno è rimasto indietro e non si riconosce più in modelli di vita che non appartengono più alla nostra società, con una visione dei ruoli risalente all’anteguerra, non è colpa del genere, ma solo perché non si è aggiornato con i nuovi titoli. Cogliete l’occasione e recuperate il tempo perso ;)

Leggere fa bene alla salute e all’intelletto.

#pinkpride
#ioleggorosa
#ioscrivorosa
E ne sono orgogliosa.

martedì 3 luglio 2018

L'amore non ha ragione



Il primo capitolo lo avete letto, un po' avete conosciuto Faith, la voce narrante, avete incontrato Killian, il suo alterego e, se avete voglia di conoscere meglio anche lui, non vi resta che aspettare il 15 settembre.

"Faith è una ragazza di diciotto anni, con una caratteristica particolare: un quoziente intellettivo 187. Nonostante il suo genio, è pessima nelle relazioni interpersonali, piuttosto rigida ed estremamente razionale.
Killian è il ragazzo più popolare di Yale e il suo giro di amicizie e frequentazioni è talmente ampio da renderlo una celebrità al campus. Determinato, trasandato, sicuro di sé e attento osservatore, non è abituato a sentirsi contraddire.
Le loro strade, agli antipodi, sono destinate a incrociarsi nell’aula dell’unico corso che poteva vederli insieme.

Due caratteri opposti, quando si incontrano, non possono che fare scintille."

Io non vedo l'ora di farvi conoscere la loro storia, nell'attesa vi informo che l'ebook è già in preorder su amazon 😉 cliccate sul titolo qui in basso se desiderate preordinarlo e rimanete sintonizzati perché potrei avere qualche sorpresa per voi 😁.

mercoledì 30 maggio 2018

Nuovo inizio, nuova storia


Per chi mi segue sulla mia pagina Facebook o sul mio profilo Instagram, il fatto che sia pronta una nuova storia non sarà una novità. In realtà il romanzo è rimasto nel cassetto quasi un anno ormai e visto che Faith e Killian desiderano fare la vostra conoscenza, ho pensato di parlarvene un po', in attesa di potervi far leggere la loro storia per intero.


Faith è una ragazza di diciotto anni, con una caratteristica piuttosto particolare: ha un quoziente intellettivo di 187. Per noi comuni mortali, la traduzione è che è un genio. Questo, però, non le ha regalato una vita facile. Infatti è pessima nelle relazioni interpersonali, piuttosto rigida ed estremamente razionale. Suo padre l'ha lasciata quando era piccola e sua madre non ha mai voluto vederla come una bambina speciale. Per questo motivo Faith odia il divorzio e desidera con tutta se stessa essere accettata per quello che è, consapevole del suo valore.


Killian ha ventitré anni ed è il ragazzo più popolare del campus. Ha le idee chiare per quel che riguarda il suo futuro: diventerà un avvocato divorzista e aiuterà le persone a uscire dalla gabbia di un matrimonio mal assortito, com'è quello dei suoi genitori. A Yale la sua fama lo precede, tanto che il suo giro di amicizie e frequentazioni è talmente ampio da far invidia a un influencer di oggi. Determinato, trasandato, sicuro di sé e attento osservatore, non è abituato a sentirsi contraddire.

Le loro strade, agli antipodi nelle premesse, sono destinate a incrociarsi nell'aula dell'unico corso che poteva vederli insieme: 

Due caratteri opposti, quando si incontrano, non possono che fare scintille.



Ecco a voi il primo capitolo... per intero ;)
Buona lettura.



Capitolo 1
Faith

Sono la prima ad arrivare. Mi piace la puntualità, denota cura e attenzione, ma dato che è da molti essere puntuali, io preferisco arrivare in anticipo. Con la lezione di sociologia del professor Weber è piuttosto facile. Inizia alle otto di venerdì mattina, ora in cui la maggior parte degli studenti, dopo i bagordi della sera prima, fa fatica a conformarsi. Ho scelto questo corso nonostante non abbia alcuna attinenza immediata con la ricerca medica, il mio campo d’interesse, perché dovevo riempire il mio piano di studi con qualche credito opzionale e questa materia conserva una base di scientificità che si sposa con la mia indole. Prendo posto in quinta fila, sistemo il mio raccoglitore per gli appunti sul piano davanti a me, insieme alla penna, tiro fuori il libro di testo e inizio a sfogliarlo. L’ho già studiato per intero, in verità, ma il punto di vista espresso dal professor Weber è stato sufficientemente interessante da stuzzicare la mia curiosità e meritare una rilettura, seppure superficiale al momento.
Sono passati due anni da quando sono entrata a Yale, una delle più giovani studentesse mai iscritte, soli sedici anni. Mia madre non l’ha presa bene quando le comunicai che avrei saltato gli ultimi anni di scuola per poter passare subito all’università. Questa scelta non rientrava nella normalità che si era figurata per me, ma rimanere oltre in quel limbo, senza realizzare uno solo dei miei interessi, non era un’alternativa accettabile. Per accontentarla, feci una sola domanda: Yale. È stata una scommessa, secondo il suo punto di vista. Secondo il mio, le possibilità che non mi ammettessero erano prossime allo zero, ma questo non gliel’ho mai detto.
Mi sono trasferita subito dopo gli esami. Vivere qui è stato immediatamente più accettabile, motivo per cui me la sto prendendo più comoda. Non ha senso affrettare qualcosa che mi fa sentire più al mio posto di qualsiasi altra l’abbia preceduta. Non vengo stigmatizzata per il mio cervello, non mi deridono per la mia intelligenza, qui si limitano a evitarmi, tutt’al più a ignorarmi, il che mi va bene, capisco di risultare strana ai loro occhi e, in fondo, non mi dispiace essere lasciata in pace, in fondo non è che io sia una di quelle persone che si possono definire socievoli, anche se non credo neanche di essere una spiacevole compagnia alla fin fine.
L’aula pian piano si riempie, gli studenti che frequentano questo corso sono tutti all’ultimo anno, il che è un vantaggio: si presume che un’età più elevata garantisca un adeguato livello di confronto su tematiche più impegnative. Il professor Weber è un signore distinto, sulla cinquantina, con i capelli brizzolati, tenuti in ordine con la riga da un lato, e una barba folta dello stesso colore che gli dona un aspetto classico, ottocentesco direi. Indossa un completo giacca e cravatta nero, con una camicia perfettamente stirata di un bianco candido che contrasta con il colore scuro dominante. La sua espressione è seria ma rilassata. Una volta entrato nell’aula, nonostante non abbia neppure aperto bocca per attirare l’attenzione, è calato un silenzio di tomba, raro persino in un’aula di Yale. Raggiunge con passo deciso la cattedra, posa il suo manuale sul piano e dà uno sguardo rapido alla platea. Non siamo tantissimi, da una prima stima distratta, direi intorno alla trentina, forse con qualche unità in meno.
«Buongiorno a tutti e benvenuti al corso di Sociologia», inizia il professore. La sua voce è scura e impostata. «Io sono il professor Weber e questo», annuncia mostrando il manuale che aveva precedentemente posato sulla cattedra, «sarà il vostro testo di riferimento. L’esame finale sarà orale e consterà di tutti gli argomenti che tratteremo in aula e di tutti quelli che troverete riportati su queste pagine e in ognuna delle dispense che vi indicherò strada facendo. La frequenza è obbligatoria, motivo per cui farò passare tra di voi questo foglio dove scriverete il vostro nome e firmerete l’ingresso a ogni lezione. Lo stesso foglio vi attenderà qui, sulla mia cattedra, al termine della stessa. Chi non avrà seguito almeno il settanta per cento delle lezioni non sarà ammesso all’esame. Per formulare la valutazione finale, terrò conto della vostra preparazione in sede d’esame, della partecipazione e dell’interesse che mostrerete in aula e della media dei voti che otterrete in ognuna delle relazioni che vi assegnerò al termine di ogni lezione. Se volete ritirarvi, questo è il momento. Ci sono domande?».
Trascorre una manciata di secondi, durante la quale qualcuno si alza e abbandona l’aula. Mi do una veloce occhiata intorno e mi rendo conto che ora siamo circa una ventina, la metà della quale sembra piuttosto convinta di voler rimanere, l’altra più rassegnata.
«Bene. Possiamo cominciare», annuncia il professor Weber soddisfatto. «Chi conosce gli esperimenti di Elton Mayo?», domanda rivolto alla platea. Alziamo la mano in cinque, io, un’altra ragazza con i capelli rossi, le lentiggini sul viso e un paio di occhiali dalle lenti tanto spesse da rimpicciolirle esageratamente gli occhi, e tre ragazzi, due mori e uno biondo.
«Lei. Qual è il suo nome?», chiede il professore rivolto al ragazzo moro dall’aspetto ordinato.
«Simon Rigg», risponde lui, leggermente imbarazzato dall’essere al centro dell’attenzione.
«Signor Rigg, cosa sa dell’effetto Hawthorne?»
«Be’, si riferisce a un esperimento condotto dallo stesso Mayo in una fabbrica della Western Electric di Hawthorne, dal quale appunto prende il nome».
«È esatto. Cosa dimostrò Mayo in quell’occasione?»
«Ehm… dunque, lui condusse degli esperimenti in cui creò un gruppo sperimentale e uno di controllo. Modificò alcune condizioni nell’ambiente lavorativo nel gruppo sperimentale per verificare la correlazione tra il miglioramento di questi aspetti e l’aumento della produttività», spiega Rigg, leggermente impacciato.
«Dimostrò tale correlazione?», domanda ancora il professore.
«Be’, sì, altrimenti non lo studieremmo, no?», cerca di allentare la pressione Rigg con una battuta, mal riuscita secondo il mio parere, ma pare che gli altri la trovino divertente.
«Veramente, da quel che mi risulta, entrambi i gruppi mostrarono un incremento della produzione», faccio notare al comico dell’anno, sistemandomi meglio gli occhiali sul naso. Lui mi guarda perplesso, come se non capisse di cosa sto parlando e io mi domando come si possa essere così disinformati quando si è scelto di seguire questo corso.
«È esatto, signorina?», interviene il professore.
«Faith Downey», rispondo tranquilla. Sapevo già di aver ragione.
«Come si spiega questo risultato inatteso?», chiede Weber rivolto alla classe. Mi impongo di dar loro qualche secondo di tempo per pensarci, ma trascorsi i primi cinque, non riesco a trattenermi. Non mi piace lasciare i discorsi a metà. In realtà non mi piace lasciare nulla a metà.
«Ciò che Mayo, insieme ai suoi colleghi, riuscì a dimostrare, fu che non era la modifica di alcune condizioni ambientali a migliorare la produttività dei gruppi, quanto piuttosto l’attenzione loro riservata per il solo fatto di essere sottoposti ad indagine sociologica. L’interesse scientifico dimostrato ha accresciuto il loro morale e la loro autostima, aumentando conseguentemente anche il livello produttivo», spiego sintetica.
«Bene, signorina Downey. Cosa ci aiuta a comprendere questo esperimento, se applicato a una macro sezione della società? In quale ambito lo trovate ancora applicabile in termini esplicativi di un fenomeno attuale?».
L’aula si immerge in un bisbiglio sommesso, finché l’altro ragazzo moro, quello seduto in modo scomposto, con i capelli ribelli e la barba incolta, non alza la mano. Il professore si accorge subito di lui e gli dà la parola con un gesto della mano.
«Mayo ci ha mostrato come il genere umano abbia continuamente bisogno di attenzione. È sufficiente notare come, al giorno d’oggi, il successo di una persona venga misurato in termini di followers su Instagram o like su Facebook».
«Mhm, ottima interpretazione, signor Hemsworth». Non mi sfugge che non gli abbia chiesto il nome. Mi volto per capire se mi sia sfuggita una sorta di etichetta attaccata su quella camicia sgualcita, ma quello che incontro è solo il suo un sorrisetto compiaciuto.
«Se la questione si sposta sui social, ritengo che non sia il bisogno di attenzione il motivo principale del loro successo», mi lascio allora sfuggire di bocca. Personalmente non amo i social e il doverli erigere a motivo di studio mi genera una sorta di orticaria fastidiosa, anche se razionalmente mi rendo conto che, in un corso di Sociologia, sia abbastanza inevitabile finire a parlare dei vari Twitter e simili.
«Ah, no?», mi sfida il signor Hemsworth, con una strana espressione sul viso. Sembra quasi che non si aspettasse la mia osservazione. Tutti gli occhi della classe si concentrano su di me, tutti lievemente allarmati. Anche il professore rimane in attesa di una spiegazione più esaustiva alla mia affermazione. Ok, se è di questo che dobbiamo parlare, parliamone.
«No, penso che vivere la propria vita attraverso un profilo virtuale sia decisamente più facile che viverla davvero. È questo il motivo del loro successo. In un mondo in cui la parola “responsabilità” fa fuggire chiunque a gambe levate, avere un profilo su Facebook garantisce la possibilità di fare e dire cose che altrimenti nessuno avrebbe mai il coraggio di fare o dire. I social non hanno fatto altro che deresponsabilizzare le persone, allontanandole in sostanza dai risultati delle loro scelte e illudendole di un successo che è in realtà effimero come l’impegno che ci è voluto per ottenerlo».
«Mi sembra che tu veda solo un lato della medaglia, Faith Downey», mi punzecchia lo studente modello, sempre più divertito dalla situazione, mentre un risolino di sottofondo si diffonde nell’aula, aspetto al quale sono piuttosto abituata, per cui non ci faccio caso.
Temo di non capire dove voglia arrivare, ma io sono certa di aver ragione. Baso ogni mia affermazione su fatti rilevabili, nulla di meno divertente. Torno a sistemarmi gli occhiali, mi cadono in continuazione, dettaglio che avevo intuito quando ne acquistai un paio tanto appariscente qualche anno fa, ma il loro scopo è essere notati e lo fanno egregiamente.
«E quale sarebbe l’altro lato?», gli rigiro la domanda.
«I social hanno anche diminuito le distanze, consentendo legami prima impossibili da mantenere», osserva tronfio e l’intera classe bisbiglia commenti di assenso.
«Mi sembra che i legami fossero molto più stabili quando si doveva fare lo sforzo di scriversi una lettera a mano e attendere mesi per ricevere la risposta, rispetto a ora, in cui basta cliccare un tasto per “piacizzare” un contenuto che non è nemmeno frutto del cervello di chi l’ha postato», ribatto per nulla intimorita dal suo inconsistente punto di vista o dal plauso che sembra generare nelle masse senza alcuno sforzo. Lui corruccia la fronte, contrariato, mentre mi squadra per qualche secondo. Non osa rispondere, probabilmente non ha proprio idea di cosa rispondere e questa sensazione non credo gli piaccia.
«Ottimo spunto di riflessione. La deresponsabilizzazione. Parliamone», riprende la parola il professor Weber, attirando di nuovo l’attenzione su di sé. L’attenzione di tutti, eccetto quella del signorino presuntuoso alle mie spalle.
«Se accettassimo il tuo punto di vista, dovremmo considerare l’uomo di oggi incapace di assumersi qualsiasi tipo di responsabilità per il solo fatto di avere molta più libertà rispetto al passato», osserva, fulminandomi con lo sguardo nero come la pece. Ha uno sguardo interessante, di certo troppo sicuro di sé, ma anche profondo. Suppongo che gli sia tornato utile in più di un’occasione, ma non voglio essere affrettata nel mio giudizio, in fondo non so ancora nulla su di lui, a parte il fatto che si è impuntato sulla ricerca di un modo per darmi torto. Povero illuso.
«In pratica è così, sì», rispondo semplicemente, spiazzandolo, tanto che sgrana gli occhi e si mette dritto sulla sedia. Il vocio di sottofondo si spegne all’istante. Ho la sensazione che nessuno qui dentro si aspettasse che la discussione imboccasse una piega simile.
«Non sono d’accordo», si ostina imperterrito. «L’uomo ha conquistato molte delle sue libertà grazie a lotte che hanno richiesto un’assunzione di responsabilità non solo per la generazione che le ha condotte, ma anche per quelle a venire. Pensa a coloro che hanno combattuto per ottenere il diritto al divorzio, solo per fare un esempio». Ecco, non poteva scegliere esempio più sbagliato.
«Non discuto sulla capacità delle precedenti generazioni di lottare, assumendosene ogni rischio, per qualcosa in cui credevano, critico piuttosto ciò che ne hanno fatto le attuali generazioni di quelle libertà. Divorziare oggi non è più un modo per tutelare se stessi da un matrimonio combinato che non si è scelto, da un coniuge violento, da una situazione di degrado, se non in una percentuale notevolmente bassa di casi nella società occidentale. La possibilità di divorziare oggi ha fatto sì che ci si sposi con leggerezza, consapevoli che, nel momento in cui ci si stancherà dell’altro, c’è sempre un modo, riconosciuto dalla legge, di tirarsi indietro. Siamo legittimati ad arrenderci alla prima difficoltà, nella bizzarra convinzione che il matrimonio sia un qualcosa di perfetto, che non richiede impegno, sacrificio, che si fonda solo su un amore etereo e inconsistente, sul quale non si deve investire nulla. Ed eccoci di nuovo alla deresponsabilizzazione. In pratica anche il divorzio fomenta quest’idea errata dell’essere umano», preciso, tornando a voltarmi verso il professor Weber.
«Questa è una stupidaggine», sbotta lui alle mie spalle. Mi rigiro perplessa. Wow, commento molto scientifico. Non può considerare una stupidaggine una costruzione fondata su basi assolutamente riscontrabili.
«Cosa?»
«È una stupidaggine», ripete, fissandomi negli occhi battagliero.
«La tua è solo un’asserzione di pancia, senza alcuna prova a supporto», mi limito a fargli notare. Lui non accenna a smettere di fissarmi. Credo di aver letto da qualche parte che fissare a lungo e insistentemente una persona non rientri nelle consuete pratiche sociali considerate accettabili dalla comune educazione. Apro la bocca, per farglielo notare, quando vengo interrotta.
«Io non credo che oggi siamo diventati incapaci di assumerci responsabilità», interviene Simon Rigg, attirando l’attenzione di tutti su di sé. Non mi piace venire interrotta.
«Lo siamo diventati? Oppure no? Rifletteteci e stilate una tesina di quattro cartelle, nella quale spiegate il vostro punto di vista, arricchendolo di dati empirici a sostegno», riprende la parola il professor Weber. «Ah, dimenticavo di dirvi che ho chiesto al rettore di poter scegliere tra voi qualcuno adatto ad assistermi nella ricerca che sto conducendo. Si tratta di un’importantissima indagine che io e alcuni miei collaboratori stiamo conducendo su una delle piaghe sociali del nostro Paese: la discriminazione razziale. Abbiamo bisogno di aiuto soprattutto nella raccolta e nella sistematizzazione dei dati, motivo per cui sceglierò tra voi qualcuno adatto al compito, che conosca sufficientemente bene la metodologia di ricerca e sappia lavorare in team. Chi non è interessato alla selezione, me lo faccia sapere entro la prossima settimana, in caso contrario, considererò ognuno di voi come un possibile candidato all’incarico». Le sue ultime parole hanno il potere di distrarmi temporaneamente dal fastidio per non aver potuto concludere la mia discussione. Un posto da assistente? Una ricerca importante? Deve essere mio.
Mentre Weber lascia l’aula, seguito a ruota da diversi studenti, io risistemo le mie cose nella borsa, pensando a come conquistare il professore in pochi decisivi passi. Voglio che non abbia dubbi su chi scegliere. Aspetto che l’aula sia vuota, poi non resisto più: «Non sta bene fissare le persone a quel modo», dico ad alta voce, incapace di trattenermi dal lasciare qualcosa di incompiuto, anche se so benissimo che ormai non mi sta ascoltando più nessuno. A questo punto, un po’ più leggera, posso guadagnare anch’io l’uscita a tornare al mio alloggio nel campus.
È stato difficile abituarsi a questa nuova sistemazione, non tanto per l’alloggio che è spazioso e dotato di ogni confort, quanto per il fatto che ho dovuto condividerlo con qualcun altro. La prima coinquilina è fuggita a gambe levate dopo una sola settimana, non ho mai capito il motivo. Ho cercato di essere chiara sulle condizioni della convivenza e non le ho mai fatto sorprese di alcun genere, quelle sì che sono destabilizzanti e fastidiose. La seconda ha resistito un mese, poi ha iniziato a trasgredire la regola più importante tra tutte: non organizzare feste o invitare sconosciuti all’interno dell’alloggio. Data la sua incapacità nell’osservare poche semplici regole, mi sono trovata costretta a notificare l’uso di sostanze non proprio legali alle autorità del campus, motivo per cui è stata espulsa.
Con la terza, le cose sono andare meglio. Edith non è intelligente come credevo necessario che dovesse essere una coinquilina accettabile, ma ha un grande pregio che supplisce questa sua mancanza. Sa ascoltare. Questo evita la maggior parte dei disagi che si erano generati con le precedenti inquiline e rende la nostra convivenza, se non stimolante, almeno accettabile. Di certo con lei mi trovo inaspettatamente bene.
«Sono tornata», annuncio, rientrando nell’appartamento in penombra.
«Oh, ciao Faith. Com’è andata la lezione?». Un’Edith allegra come al solito mi accoglie sorridente. Sta guardando la televisione, comodamente seduta sul divano a tre posti, sistemato al centro della stanza. Dal chiacchiericcio in sottofondo, deduco sia uno di quei filmetti smielati che le piacciono tanto.
«Bene», rispondo tranquilla, posando la mia borsa sul tavolinetto basso e sedendomi accanto a lei. «Cosa guardi?»
«Oh, un vero capolavoro, C’è posta per te. Meg Ryan è stupenda», si entusiasma subito alla mia domanda. Io la guardo perplessa. Non capisco questa sua fissazione con i sentimenti, l’amore, il romanticismo. Sembra che nel suo mondo non possa esistere altro e non si renda conto di quanto possano essere pericolosi. Sono armi a doppio taglio che espongono a rischi di perdita della ragione più frequenti di quelli legati ai casi di pazzia considerati patologici.
«Qual è la storia?», provo a interessarmi. Forse c’è qualche aspetto che mi sfugge e che rende il tutto degno di essere apprezzato. In realtà, dubito che ci sia, ma ho imparato che con le persone è bene lasciare un margine di confronto, anche quando sai perfettamente di avere ragione. Questa banale accortezza, le rende poi più disponibili ad aprire la mente e accettare la dura verità.
«Lei è una libraia, ha ereditato la piccola libreria per bambini, dove lavora, dalla madre. Le piace il suo lavoro e lo fa con passione, finché non scopre che il magnate delle grandi librerie Fox sta per aprire un negozio proprio vicino alla sua libreria», inizia con lo sguardo sognante.
«Immagino che all’inizio non si piacciano, ma per motivi del tutto casuali alla fine si frequentino, scoprendo di essere esattamente il perfetto completamento l’uno dell’altra. La competizione, i problemi economici, la realizzazione personale passano in secondo piano e l’amore trionfa su tutto. È così?». Non ce la faccio a lasciarle raccontare tutta la storia con la sua lentezza e l’accento posto proprio sul lato mieloso della vicenda.
«L’hai già visto?», mi chiede lei sorpresa.
«No. Non è il mio genere».
«E come facevi a sapere la storia?»
«L’ho dedotta». Dalle poche scene che mi sono passate davanti agli occhi da quando sono rientrata, dalla conoscenza del genere di film che trasformano il suo sguardo azzurro cielo in qualcosa di così brillante da essere quasi fastidioso e da una serie di altri piccoli indizi sparsi in giro, come il pacchetto di fazzoletti smezzato abbandonato sul tavolino. Spero che quelli usati siano finiti tutti nel cestino dell’immondizia, dove dovrebbero essere.
«Wow. Non so proprio come ci riesci», commenta con un accento ironico del quale non sono del tutto sicura. Devo ancora imparare a riconoscerlo bene.
«Pura applicazione di osservazione ed esperienza pregressa», rispondo, quasi disinteressata. So già che per lei è praticamente impossibile comprendere un concetto più complicato di uno dei suoi film romantici.
«Intendevo a rovinare tutti i miei film. Comunque», si riprende, afferrando il telecomando e mettendo in pausa il film per dedicarmi tutta la sua attenzione, «conosciuto il professor Weber?»
«Non sapevo ti interessassi di sociologia», confesso stupita. «Come sai il nome del mio professore?»
«Lo sanno tutti, qui al campus. È famoso per essere il professore più tosto di tutte le università del Connecticut. Ma che dico Connecticut, di tutti gli Stati Uniti. Però gira voce che abbia bisogno di un assistente, motivo per cui ho pensato che oggi sarebbe stato un bel giorno per te».
«In effetti sì, ha accennato alla possibilità di prendere un assistente tra i suoi studenti, ma lo deciderà solo al termine del corso».
«Ma tu sei un genio. Sceglierà te!», esclama sicura.
«Se la sua decisione sarà fondata su criteri di merito e capacità, allora sì, non potrà che scegliere me. Ma finché non lo farà, preferisco mantenere un profilo basso», le spiego, prima che vada dicendo ai quattro venti qualcosa di sconveniente. Vorrei prima studiare la concorrenza. Non mi aspetto grandi rivali, ma ho il sospetto che quel Hemsworth non sia da sottovalutare. Nonostante non basi le sue affermazioni su prove tangibili, ha una spiccata capacità oratoria, questo non posso negarlo.
«Come vuoi tu», mi accontenta lei. «In effetti sono rimasta sorpresa, quando mi hai detto che avevi intenzione di frequentare le sue lezioni».
«Perché mai? Sono perfettamente all’altezza di seguire quel corso», preciso, tranquilla.
«Devo ancora scoprire cosa tu non sia all’altezza di fare. È solo che non credevo che avessi un qualche tipo di interesse per la sociologia. Di solito non ti piace molto sottostare alle convenzioni sociali», osserva lei, pensierosa.
«È vero, non credo affatto nelle convenzioni sociali, ma questo non vuol dire che non sia in grado di comprenderne l’utilità. Per esempio, ora, non sono andata direttamente nella mia stanza a studiare, attività decisamente più proficua, ma mi sono fermata qui con te a fare conversazione», le faccio notare. «Probabilmente, seguire le lezioni del professor Weber mi aiuterà a capire qualcosa in più di questo mondo relazionale. Sono sempre ben disposta ad accrescere le mie competenze e conoscenze», le spiego, cercando di essere quanto più chiara possibile.
«C’è chi frequenta psicologia per psicanalizzarsi e chi lo fa con sociologia. Posso capirlo», sentenzia con l’aria di una che ha capito tutto della vita.
«La psicologia non è una scienza. La sociologia sì. E in ogni caso, non la frequento per migliorare i miei rapporti sociali. Il mio è puro interesse scientifico», preciso, non so neppure io il perché. In realtà so benissimo che la mia scelta è stata dettata principalmente dal bisogno di capire le relazioni tra le persone e i meccanismi che le governano.
«Certo, certo. Ah, poi avrei un piccolo favore da chiederti», cambia improvvisamente discorso. La sua espressione si fa innocente, ma non mi guarda più negli occhi.
«Dimmi pure», mi sistemo meglio sul divano e sollevo gli occhiali sul naso.
«Ecco, vedi… dopodomani pomeriggio avrei le prove di teatro, hai presente il Macbeth che dobbiamo mettere in scena?». La sta prendendo alla larga.
«Sì, ricordo che me ne avevi parlato la settimana scorsa, interrompendo la mia lettura de “Il Capitale” di Karl Marx».
«Sì, stavi leggendo un librone immenso quando te l’ho detto. Be’, il fatto è che non ho ancora avuto tempo di preparare la parte come si deve e avrei bisogno di provare», cerca di spiegarsi, ma io non ho ancora capito dove vuole andare a parare.
«Non ti ho mai impedito di provare, a meno che tu non abbia un ruolo che preveda forti urla in spazi stretti. Deve strillare tanto il tuo personaggio?», domando pratica.
«No, no, non devo urlare, è solo che dovrei provare insieme ai miei colleghi, sai per studiare bene gli attacchi, per capire se ci ritroviamo nei rispettivi ruoli…», continua a girarci intorno.
«Non ti ho mai impedito neppure di provare con i tuoi colleghi. È un’opera importante, immagino dobbiate porre una particolare attenzione alle pause e ai diversi interventi. Provare in gruppo mi sembra la soluzione più logica».
«Ok, sono felice che la pensi così», si rasserena subito.
«Non era una novità. Quello che non capisco è quale sarebbe il favore di cui avresti bisogno da me».
«Ah, sì», sembra quasi che qualsiasi cosa fosse, le sia sfuggita di mente per poi ricomparire all’improvviso. «Be’, nessuno ha l’alloggio disponibile per le prove e così avevamo pensato di riunirci tutti qui».
Rimango ferma a guardarla per qualche secondo. Non sono sicura di aver capito bene le parole che sono appena uscite dalla sua bocca.
«Non sarà per molto tempo, solo due o tre ore al massimo, domani pomeriggio. Nessuno urlerà, promesso», cerca di convincermi.
«No, no, no», è la mia risposta secca. «Non esiste che qualche estraneo metta piede qui dentro». Ho già faticato ad ambientarmi in un posto nuovo, per crearmi la mia routine, non sopporterei di vedere il mio rifugio preso d’assalto da sconosciuti.
«Faith, non te lo chiederei se avessi un’alternativa, lo sai benissimo», mi supplica, incrociando le dita e avvicinandosi a me col suo sguardo da cerbiatto.
«No, no, no», ripeto, quasi spaventata alla sola idea.
«Potresti chiuderti nella tua stanza. Non ci sentiresti neppure», insiste lei. «Oppure potresti uscire, andare a studiare in biblioteca. Sai, il mondo pullula di gente in salute che esce, che vive all’aperto, fuori casa. Fuori è fantastico».
«Non dire stupidaggini. Se fuori fosse così fantastico come dici, perché l’uomo ha cercato per migliaia di anni la sua dimora dentro?», non può ignorare secoli di evoluzione.
«Oh, Faith, ma è ovvio, per dare lavoro agli architetti d’interni», minimizza la cosa con un gesto veloce della mano. «Ma prometto che pulirò tutto dopo. Disinfetterò da cima a fondo, farò arieggiare il salotto, non rimarrà traccia neanche di un odore sgradito, nulla. Ti prego!». Accidenti. C’è una voce dentro di me che in questo momento sta urlando di non farle fare una cosa del genere. Vorrei tanto darle ascolto, ma non so il perché, alla fine non lo faccio. Abbasso lo sguardo sulle mie ginocchia, stringo le mani a pugno e prendo un respiro profondo.
«Veramente non hai altra alternativa?»
«Veramente», risponde speranzosa.
«E disinfetterai tutto?»
«Tutto. Promesso».
«Due ore, non di più. Uscirò a prendere freddo alle quindici e rientrerò alle diciassette e un quarto. Non voglio vedere nessuno», le intimo, puntandole un dito ammonitore davanti agli occhi.
«Non vedrai nessuno!», promette con una mano sul cuore. «Grazie, grazie, grazie!!!», sorride e allarga le braccia, pretendendo un abbraccio. Nooo, questo è troppo. Mi alzo in fretta, prima che riesca ad agguantarmi nella sua presa.
«Prego», le dico soltanto, prima di riprendere la mia borsa e rifugiarmi nella mia stanza. La convivenza è davvero difficile a volte.


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