Per chi mi segue sulla mia pagina Facebook o sul mio profilo Instagram, il fatto che sia pronta una nuova storia non sarà una novità. In realtà il romanzo è rimasto nel cassetto quasi un anno ormai e visto che Faith e Killian desiderano fare la vostra conoscenza, ho pensato di parlarvene un po', in attesa di potervi far leggere la loro storia per intero.
Faith è una ragazza di diciotto anni, con una caratteristica piuttosto particolare: ha un quoziente intellettivo di 187. Per noi comuni mortali, la traduzione è che è un genio. Questo, però, non le ha regalato una vita facile. Infatti è pessima nelle relazioni interpersonali, piuttosto rigida ed estremamente razionale. Suo padre l'ha lasciata quando era piccola e sua madre non ha mai voluto vederla come una bambina speciale. Per questo motivo Faith odia il divorzio e desidera con tutta se stessa essere accettata per quello che è, consapevole del suo valore.
Killian ha ventitré anni ed è il ragazzo più popolare del campus. Ha le idee chiare per quel che riguarda il suo futuro: diventerà un avvocato divorzista e aiuterà le persone a uscire dalla gabbia di un matrimonio mal assortito, com'è quello dei suoi genitori. A Yale la sua fama lo precede, tanto che il suo giro di amicizie e frequentazioni è talmente ampio da far invidia a un influencer di oggi. Determinato, trasandato, sicuro di sé e attento osservatore, non è abituato a sentirsi contraddire.
Le loro strade, agli antipodi nelle premesse, sono destinate a incrociarsi nell'aula dell'unico corso che poteva vederli insieme:
Due caratteri opposti, quando si incontrano, non possono che fare scintille.
Ecco a voi il primo capitolo... per intero ;)
Buona lettura.
Capitolo 1
Faith
Sono la prima ad arrivare. Mi piace la
puntualità, denota cura e attenzione, ma dato che è da molti essere puntuali,
io preferisco arrivare in anticipo. Con la lezione di sociologia del professor
Weber è piuttosto facile. Inizia alle otto di venerdì mattina, ora in cui la
maggior parte degli studenti, dopo i bagordi della sera prima, fa fatica a
conformarsi. Ho scelto questo corso nonostante non abbia alcuna attinenza
immediata con la ricerca medica, il mio campo d’interesse, perché dovevo
riempire il mio piano di studi con qualche credito opzionale e questa materia
conserva una base di scientificità che si sposa con la mia indole. Prendo posto
in quinta fila, sistemo il mio raccoglitore per gli appunti sul piano davanti a
me, insieme alla penna, tiro fuori il libro di testo e inizio a sfogliarlo.
L’ho già studiato per intero, in verità, ma il punto di vista espresso dal
professor Weber è stato sufficientemente interessante da stuzzicare la mia
curiosità e meritare una rilettura, seppure superficiale al momento.
Sono passati due anni da quando sono
entrata a Yale, una delle più giovani studentesse mai iscritte, soli sedici
anni. Mia madre non l’ha presa bene quando le comunicai che avrei saltato gli
ultimi anni di scuola per poter passare subito all’università. Questa scelta
non rientrava nella normalità che si era figurata per me, ma rimanere oltre in
quel limbo, senza realizzare uno solo dei miei interessi, non era
un’alternativa accettabile. Per accontentarla, feci una sola domanda: Yale. È
stata una scommessa, secondo il suo punto di vista. Secondo il mio, le
possibilità che non mi ammettessero erano prossime allo zero, ma questo non
gliel’ho mai detto.
Mi sono trasferita subito dopo gli
esami. Vivere qui è stato immediatamente più accettabile, motivo per cui me la
sto prendendo più comoda. Non ha senso affrettare qualcosa che mi fa sentire
più al mio posto di qualsiasi altra l’abbia preceduta. Non vengo stigmatizzata
per il mio cervello, non mi deridono per la mia intelligenza, qui si limitano a
evitarmi, tutt’al più a ignorarmi, il che mi va bene, capisco di risultare
strana ai loro occhi e, in fondo, non mi dispiace essere lasciata in pace, in
fondo non è che io sia una di quelle persone che si possono definire socievoli,
anche se non credo neanche di essere una spiacevole compagnia alla fin fine.
L’aula pian piano si riempie, gli
studenti che frequentano questo corso sono tutti all’ultimo anno, il che è un
vantaggio: si presume che un’età più elevata garantisca un adeguato livello di
confronto su tematiche più impegnative. Il professor Weber è un signore
distinto, sulla cinquantina, con i capelli brizzolati, tenuti in ordine con la
riga da un lato, e una barba folta dello stesso colore che gli dona un aspetto
classico, ottocentesco direi. Indossa un completo giacca e cravatta nero, con
una camicia perfettamente stirata di un bianco candido che contrasta con il
colore scuro dominante. La sua espressione è seria ma rilassata. Una volta entrato
nell’aula, nonostante non abbia neppure aperto bocca per attirare l’attenzione,
è calato un silenzio di tomba, raro persino in un’aula di Yale. Raggiunge con
passo deciso la cattedra, posa il suo manuale sul piano e dà uno sguardo rapido
alla platea. Non siamo tantissimi, da una prima stima distratta, direi intorno
alla trentina, forse con qualche unità in meno.
«Buongiorno a tutti e benvenuti al corso
di Sociologia», inizia il professore. La sua voce è scura e impostata. «Io sono
il professor Weber e questo», annuncia mostrando il manuale che aveva
precedentemente posato sulla cattedra, «sarà il vostro testo di riferimento.
L’esame finale sarà orale e consterà di tutti gli argomenti che tratteremo in
aula e di tutti quelli che troverete riportati su queste pagine e in ognuna
delle dispense che vi indicherò strada facendo. La frequenza è obbligatoria,
motivo per cui farò passare tra di voi questo foglio dove scriverete il vostro
nome e firmerete l’ingresso a ogni lezione. Lo stesso foglio vi attenderà qui,
sulla mia cattedra, al termine della stessa. Chi non avrà seguito almeno il
settanta per cento delle lezioni non sarà ammesso all’esame. Per formulare la
valutazione finale, terrò conto della vostra preparazione in sede d’esame, della
partecipazione e dell’interesse che mostrerete in aula e della media dei voti
che otterrete in ognuna delle relazioni che vi assegnerò al termine di ogni
lezione. Se volete ritirarvi, questo è il momento. Ci sono domande?».
Trascorre una manciata di secondi,
durante la quale qualcuno si alza e abbandona l’aula. Mi do una veloce occhiata
intorno e mi rendo conto che ora siamo circa una ventina, la metà della quale
sembra piuttosto convinta di voler rimanere, l’altra più rassegnata.
«Bene. Possiamo cominciare», annuncia il
professor Weber soddisfatto. «Chi conosce gli esperimenti di Elton Mayo?»,
domanda rivolto alla platea. Alziamo la mano in cinque, io, un’altra ragazza
con i capelli rossi, le lentiggini sul viso e un paio di occhiali dalle lenti
tanto spesse da rimpicciolirle esageratamente gli occhi, e tre ragazzi, due
mori e uno biondo.
«Lei. Qual è il suo nome?», chiede il
professore rivolto al ragazzo moro dall’aspetto ordinato.
«Simon Rigg», risponde lui, leggermente
imbarazzato dall’essere al centro dell’attenzione.
«Signor Rigg, cosa sa dell’effetto
Hawthorne?»
«Be’, si riferisce a un esperimento
condotto dallo stesso Mayo in una fabbrica della Western Electric di Hawthorne,
dal quale appunto prende il nome».
«È esatto. Cosa dimostrò Mayo in quell’occasione?»
«Ehm… dunque, lui condusse degli
esperimenti in cui creò un gruppo sperimentale e uno di controllo. Modificò
alcune condizioni nell’ambiente lavorativo nel gruppo sperimentale per
verificare la correlazione tra il miglioramento di questi aspetti e l’aumento
della produttività», spiega Rigg, leggermente impacciato.
«Dimostrò tale correlazione?», domanda
ancora il professore.
«Be’, sì, altrimenti non lo studieremmo,
no?», cerca di allentare la pressione Rigg con una battuta, mal riuscita
secondo il mio parere, ma pare che gli altri la trovino divertente.
«Veramente, da quel che mi risulta,
entrambi i gruppi mostrarono un incremento della produzione», faccio notare al
comico dell’anno, sistemandomi meglio gli occhiali sul naso. Lui mi guarda
perplesso, come se non capisse di cosa sto parlando e io mi domando come si
possa essere così disinformati quando si è scelto di seguire questo corso.
«È esatto, signorina?», interviene il
professore.
«Faith Downey», rispondo tranquilla.
Sapevo già di aver ragione.
«Come si spiega questo risultato
inatteso?», chiede Weber rivolto alla classe. Mi impongo di dar loro qualche
secondo di tempo per pensarci, ma trascorsi i primi cinque, non riesco a
trattenermi. Non mi piace lasciare i discorsi a metà. In realtà non mi piace
lasciare nulla a metà.
«Ciò che Mayo, insieme ai suoi colleghi,
riuscì a dimostrare, fu che non era la modifica di alcune condizioni ambientali
a migliorare la produttività dei gruppi, quanto piuttosto l’attenzione loro
riservata per il solo fatto di essere sottoposti ad indagine sociologica.
L’interesse scientifico dimostrato ha accresciuto il loro morale e la loro
autostima, aumentando conseguentemente anche il livello produttivo», spiego
sintetica.
«Bene, signorina Downey. Cosa ci aiuta a
comprendere questo esperimento, se applicato a una macro sezione della società?
In quale ambito lo trovate ancora applicabile in termini esplicativi di un
fenomeno attuale?».
L’aula si immerge in un bisbiglio
sommesso, finché l’altro ragazzo moro, quello seduto in modo scomposto, con i
capelli ribelli e la barba incolta, non alza la mano. Il professore si accorge
subito di lui e gli dà la parola con un gesto della mano.
«Mayo ci ha mostrato come il genere
umano abbia continuamente bisogno di attenzione. È sufficiente notare come, al
giorno d’oggi, il successo di una persona venga misurato in termini di followers
su Instagram o like su Facebook».
«Mhm, ottima interpretazione, signor
Hemsworth». Non mi sfugge che non gli abbia chiesto il nome. Mi volto per
capire se mi sia sfuggita una sorta di etichetta attaccata su quella camicia
sgualcita, ma quello che incontro è solo il suo un sorrisetto compiaciuto.
«Se la questione si sposta sui social,
ritengo che non sia il bisogno di attenzione il motivo principale del loro
successo», mi lascio allora sfuggire di bocca. Personalmente non amo i social e
il doverli erigere a motivo di studio mi genera una sorta di orticaria
fastidiosa, anche se razionalmente mi rendo conto che, in un corso di
Sociologia, sia abbastanza inevitabile finire a parlare dei vari Twitter e
simili.
«Ah, no?», mi sfida il signor Hemsworth,
con una strana espressione sul viso. Sembra quasi che non si aspettasse la mia
osservazione. Tutti gli occhi della classe si concentrano su di me, tutti
lievemente allarmati. Anche il professore rimane in attesa di una spiegazione
più esaustiva alla mia affermazione. Ok, se è di questo che dobbiamo parlare,
parliamone.
«No, penso che vivere la propria vita
attraverso un profilo virtuale sia decisamente più facile che viverla davvero.
È questo il motivo del loro successo. In un mondo in cui la parola
“responsabilità” fa fuggire chiunque a gambe levate, avere un profilo su
Facebook garantisce la possibilità di fare e dire cose che altrimenti nessuno
avrebbe mai il coraggio di fare o dire. I social non hanno fatto altro che
deresponsabilizzare le persone, allontanandole in sostanza dai risultati delle
loro scelte e illudendole di un successo che è in realtà effimero come
l’impegno che ci è voluto per ottenerlo».
«Mi sembra che tu veda solo un lato
della medaglia, Faith Downey», mi punzecchia lo studente modello, sempre più
divertito dalla situazione, mentre un risolino di sottofondo si diffonde
nell’aula, aspetto al quale sono piuttosto abituata, per cui non ci faccio caso.
Temo di non capire dove voglia arrivare,
ma io sono certa di aver ragione. Baso ogni mia affermazione su fatti
rilevabili, nulla di meno divertente. Torno a sistemarmi gli occhiali, mi
cadono in continuazione, dettaglio che avevo intuito quando ne acquistai un
paio tanto appariscente qualche anno fa, ma il loro scopo è essere notati e lo
fanno egregiamente.
«E quale sarebbe l’altro lato?», gli
rigiro la domanda.
«I social hanno anche diminuito le
distanze, consentendo legami prima impossibili da mantenere», osserva tronfio e
l’intera classe bisbiglia commenti di assenso.
«Mi sembra che i legami fossero molto
più stabili quando si doveva fare lo sforzo di scriversi una lettera a mano e
attendere mesi per ricevere la risposta, rispetto a ora, in cui basta cliccare
un tasto per “piacizzare” un contenuto che non è nemmeno frutto del cervello di
chi l’ha postato», ribatto per nulla intimorita dal suo inconsistente punto di
vista o dal plauso che sembra generare nelle masse senza alcuno sforzo. Lui
corruccia la fronte, contrariato, mentre mi squadra per qualche secondo. Non
osa rispondere, probabilmente non ha proprio idea di cosa rispondere e questa
sensazione non credo gli piaccia.
«Ottimo spunto di riflessione. La
deresponsabilizzazione. Parliamone», riprende la parola il professor Weber,
attirando di nuovo l’attenzione su di sé. L’attenzione di tutti, eccetto quella
del signorino presuntuoso alle mie spalle.
«Se accettassimo il tuo punto di vista,
dovremmo considerare l’uomo di oggi incapace di assumersi qualsiasi tipo di
responsabilità per il solo fatto di avere molta più libertà rispetto al
passato», osserva, fulminandomi con lo sguardo nero come la pece. Ha uno
sguardo interessante, di certo troppo sicuro di sé, ma anche profondo. Suppongo
che gli sia tornato utile in più di un’occasione, ma non voglio essere
affrettata nel mio giudizio, in fondo non so ancora nulla su di lui, a parte il
fatto che si è impuntato sulla ricerca di un modo per darmi torto. Povero
illuso.
«In pratica è così, sì», rispondo
semplicemente, spiazzandolo, tanto che sgrana gli occhi e si mette dritto sulla
sedia. Il vocio di sottofondo si spegne all’istante. Ho la sensazione che
nessuno qui dentro si aspettasse che la discussione imboccasse una piega
simile.
«Non sono d’accordo», si ostina
imperterrito. «L’uomo ha conquistato molte delle sue libertà grazie a lotte che
hanno richiesto un’assunzione di responsabilità non solo per la generazione che
le ha condotte, ma anche per quelle a venire. Pensa a coloro che hanno
combattuto per ottenere il diritto al divorzio, solo per fare un esempio».
Ecco, non poteva scegliere esempio più sbagliato.
«Non discuto sulla capacità delle
precedenti generazioni di lottare, assumendosene ogni rischio, per qualcosa in
cui credevano, critico piuttosto ciò che ne hanno fatto le attuali generazioni di quelle libertà. Divorziare oggi non è più un
modo per tutelare se stessi da un matrimonio combinato che non si è scelto, da
un coniuge violento, da una situazione di degrado, se non in una percentuale
notevolmente bassa di casi nella società occidentale. La possibilità di divorziare
oggi ha fatto sì che ci si sposi con leggerezza, consapevoli che, nel momento
in cui ci si stancherà dell’altro, c’è sempre un modo, riconosciuto dalla
legge, di tirarsi indietro. Siamo legittimati ad arrenderci alla prima
difficoltà, nella bizzarra convinzione che il matrimonio sia un qualcosa di
perfetto, che non richiede impegno, sacrificio, che si fonda solo su un amore
etereo e inconsistente, sul quale non si deve investire nulla. Ed eccoci di
nuovo alla deresponsabilizzazione. In pratica anche il divorzio fomenta
quest’idea errata dell’essere umano», preciso, tornando a voltarmi verso il
professor Weber.
«Questa è una stupidaggine», sbotta lui
alle mie spalle. Mi rigiro perplessa. Wow, commento molto scientifico. Non può
considerare una stupidaggine una costruzione fondata su basi assolutamente
riscontrabili.
«Cosa?»
«È una stupidaggine», ripete, fissandomi
negli occhi battagliero.
«La tua è solo un’asserzione di pancia,
senza alcuna prova a supporto», mi limito a fargli notare. Lui non accenna a
smettere di fissarmi. Credo di aver letto da qualche parte che fissare a lungo
e insistentemente una persona non rientri nelle consuete pratiche sociali
considerate accettabili dalla comune educazione. Apro la bocca, per farglielo
notare, quando vengo interrotta.
«Io non credo che oggi siamo diventati
incapaci di assumerci responsabilità», interviene Simon Rigg, attirando
l’attenzione di tutti su di sé. Non mi piace venire interrotta.
«Lo siamo diventati? Oppure no?
Rifletteteci e stilate una tesina di quattro cartelle, nella quale spiegate il
vostro punto di vista, arricchendolo di dati empirici a sostegno», riprende la
parola il professor Weber. «Ah, dimenticavo di dirvi che ho chiesto al rettore
di poter scegliere tra voi qualcuno adatto ad assistermi nella ricerca che sto
conducendo. Si tratta di un’importantissima indagine che io e alcuni miei
collaboratori stiamo conducendo su una delle piaghe sociali del nostro Paese:
la discriminazione razziale. Abbiamo bisogno di aiuto soprattutto nella
raccolta e nella sistematizzazione dei dati, motivo per cui sceglierò tra voi
qualcuno adatto al compito, che conosca sufficientemente bene la metodologia di
ricerca e sappia lavorare in team. Chi non è interessato alla selezione, me lo
faccia sapere entro la prossima settimana, in caso contrario, considererò
ognuno di voi come un possibile candidato all’incarico». Le sue ultime parole
hanno il potere di distrarmi temporaneamente dal fastidio per non aver potuto
concludere la mia discussione. Un posto da assistente? Una ricerca importante?
Deve essere mio.
Mentre Weber lascia l’aula, seguito a
ruota da diversi studenti, io risistemo le mie cose nella borsa, pensando a
come conquistare il professore in pochi decisivi passi. Voglio che non abbia
dubbi su chi scegliere. Aspetto che l’aula sia vuota, poi non resisto più: «Non
sta bene fissare le persone a quel modo», dico ad alta voce, incapace di
trattenermi dal lasciare qualcosa di incompiuto, anche se so benissimo che
ormai non mi sta ascoltando più nessuno. A questo punto, un po’ più leggera,
posso guadagnare anch’io l’uscita a tornare al mio alloggio nel campus.
È stato difficile abituarsi a questa
nuova sistemazione, non tanto per l’alloggio che è spazioso e dotato di ogni
confort, quanto per il fatto che ho dovuto condividerlo con qualcun altro. La
prima coinquilina è fuggita a gambe levate dopo una sola settimana, non ho mai
capito il motivo. Ho cercato di essere chiara sulle condizioni della convivenza
e non le ho mai fatto sorprese di alcun genere, quelle sì che sono
destabilizzanti e fastidiose. La seconda ha resistito un mese, poi ha iniziato
a trasgredire la regola più importante tra tutte: non organizzare feste o
invitare sconosciuti all’interno dell’alloggio. Data la sua incapacità
nell’osservare poche semplici regole, mi sono trovata costretta a notificare
l’uso di sostanze non proprio legali alle autorità del campus, motivo per cui è
stata espulsa.
Con la terza, le cose sono andare meglio.
Edith non è intelligente come credevo necessario che dovesse essere una
coinquilina accettabile, ma ha un grande pregio che supplisce questa sua
mancanza. Sa ascoltare. Questo evita la maggior parte dei disagi che si erano
generati con le precedenti inquiline e rende la nostra convivenza, se non
stimolante, almeno accettabile. Di certo con lei mi trovo inaspettatamente
bene.
«Sono tornata», annuncio, rientrando
nell’appartamento in penombra.
«Oh, ciao Faith. Com’è andata la
lezione?». Un’Edith allegra come al solito mi accoglie sorridente. Sta
guardando la televisione, comodamente seduta sul divano a tre posti, sistemato
al centro della stanza. Dal chiacchiericcio in sottofondo, deduco sia uno di
quei filmetti smielati che le piacciono tanto.
«Bene», rispondo tranquilla, posando la
mia borsa sul tavolinetto basso e sedendomi accanto a lei. «Cosa guardi?»
«Oh, un vero capolavoro, C’è posta per te. Meg Ryan è stupenda»,
si entusiasma subito alla mia domanda. Io la guardo perplessa. Non capisco
questa sua fissazione con i sentimenti, l’amore, il romanticismo. Sembra che
nel suo mondo non possa esistere altro e non si renda conto di quanto possano
essere pericolosi. Sono armi a doppio taglio che espongono a rischi di perdita
della ragione più frequenti di quelli legati ai casi di pazzia considerati
patologici.
«Qual è la storia?», provo a
interessarmi. Forse c’è qualche aspetto che mi sfugge e che rende il tutto
degno di essere apprezzato. In realtà, dubito che ci sia, ma ho imparato che
con le persone è bene lasciare un margine di confronto, anche quando sai
perfettamente di avere ragione. Questa banale accortezza, le rende poi più
disponibili ad aprire la mente e accettare la dura verità.
«Lei è una libraia, ha ereditato la
piccola libreria per bambini, dove lavora, dalla madre. Le piace il suo lavoro
e lo fa con passione, finché non scopre che il magnate delle grandi librerie
Fox sta per aprire un negozio proprio vicino alla sua libreria», inizia con lo
sguardo sognante.
«Immagino che all’inizio non si
piacciano, ma per motivi del tutto casuali alla fine si frequentino, scoprendo
di essere esattamente il perfetto completamento l’uno dell’altra. La
competizione, i problemi economici, la realizzazione personale passano in secondo
piano e l’amore trionfa su tutto. È così?». Non ce la faccio a lasciarle
raccontare tutta la storia con la sua lentezza e l’accento posto proprio sul
lato mieloso della vicenda.
«L’hai già visto?», mi chiede lei
sorpresa.
«No. Non è il mio genere».
«E come facevi a sapere la storia?»
«L’ho dedotta». Dalle poche scene che mi
sono passate davanti agli occhi da quando sono rientrata, dalla conoscenza del
genere di film che trasformano il suo sguardo azzurro cielo in qualcosa di così
brillante da essere quasi fastidioso e da una serie di altri piccoli indizi
sparsi in giro, come il pacchetto di fazzoletti smezzato abbandonato sul
tavolino. Spero che quelli usati siano finiti tutti nel cestino
dell’immondizia, dove dovrebbero essere.
«Wow. Non so proprio come ci riesci», commenta
con un accento ironico del quale non sono del tutto sicura. Devo ancora
imparare a riconoscerlo bene.
«Pura applicazione di osservazione ed
esperienza pregressa», rispondo, quasi disinteressata. So già che per lei è
praticamente impossibile comprendere un concetto più complicato di uno dei suoi
film romantici.
«Intendevo a rovinare tutti i miei film.
Comunque», si riprende, afferrando il telecomando e mettendo in pausa il film
per dedicarmi tutta la sua attenzione, «conosciuto il professor Weber?»
«Non sapevo ti interessassi di
sociologia», confesso stupita. «Come sai il nome del mio professore?»
«Lo sanno tutti, qui al campus. È famoso
per essere il professore più tosto di tutte le università del Connecticut. Ma
che dico Connecticut, di tutti gli Stati Uniti. Però gira voce che abbia
bisogno di un assistente, motivo per cui ho pensato che oggi sarebbe stato un
bel giorno per te».
«In effetti sì, ha accennato alla
possibilità di prendere un assistente tra i suoi studenti, ma lo deciderà solo
al termine del corso».
«Ma tu sei un genio. Sceglierà te!»,
esclama sicura.
«Se la sua decisione sarà fondata su
criteri di merito e capacità, allora sì, non potrà che scegliere me. Ma finché
non lo farà, preferisco mantenere un profilo basso», le spiego, prima che vada
dicendo ai quattro venti qualcosa di sconveniente. Vorrei prima studiare la
concorrenza. Non mi aspetto grandi rivali, ma ho il sospetto che quel Hemsworth
non sia da sottovalutare. Nonostante non basi le sue affermazioni su prove
tangibili, ha una spiccata capacità oratoria, questo non posso negarlo.
«Come vuoi tu», mi accontenta lei. «In
effetti sono rimasta sorpresa, quando mi hai detto che avevi intenzione di
frequentare le sue lezioni».
«Perché mai? Sono perfettamente
all’altezza di seguire quel corso», preciso, tranquilla.
«Devo ancora scoprire cosa tu non sia
all’altezza di fare. È solo che non credevo che avessi un qualche tipo di
interesse per la sociologia. Di solito non ti piace molto sottostare alle
convenzioni sociali», osserva lei, pensierosa.
«È vero, non credo affatto nelle
convenzioni sociali, ma questo non vuol dire che non sia in grado di
comprenderne l’utilità. Per esempio, ora, non sono andata direttamente nella
mia stanza a studiare, attività decisamente più proficua, ma mi sono fermata
qui con te a fare conversazione», le faccio notare. «Probabilmente, seguire le
lezioni del professor Weber mi aiuterà a capire qualcosa in più di questo mondo
relazionale. Sono sempre ben disposta ad accrescere le mie competenze e conoscenze»,
le spiego, cercando di essere quanto più chiara possibile.
«C’è chi frequenta psicologia per
psicanalizzarsi e chi lo fa con sociologia. Posso capirlo», sentenzia con
l’aria di una che ha capito tutto della vita.
«La psicologia non è una scienza. La sociologia
sì. E in ogni caso, non la frequento per migliorare i miei rapporti sociali. Il
mio è puro interesse scientifico», preciso, non so neppure io il perché. In
realtà so benissimo che la mia scelta è stata dettata principalmente dal
bisogno di capire le relazioni tra le persone e i meccanismi che le governano.
«Certo, certo. Ah, poi avrei un piccolo
favore da chiederti», cambia improvvisamente discorso. La sua espressione si fa
innocente, ma non mi guarda più negli occhi.
«Dimmi pure», mi sistemo meglio sul
divano e sollevo gli occhiali sul naso.
«Ecco, vedi… dopodomani pomeriggio avrei
le prove di teatro, hai presente il Macbeth che dobbiamo mettere in scena?». La
sta prendendo alla larga.
«Sì, ricordo che me ne avevi parlato la
settimana scorsa, interrompendo la mia lettura de “Il Capitale” di Karl Marx».
«Sì, stavi leggendo un librone immenso
quando te l’ho detto. Be’, il fatto è che non ho ancora avuto tempo di
preparare la parte come si deve e avrei bisogno di provare», cerca di
spiegarsi, ma io non ho ancora capito dove vuole andare a parare.
«Non ti ho mai impedito di provare, a
meno che tu non abbia un ruolo che preveda forti urla in spazi stretti. Deve
strillare tanto il tuo personaggio?», domando pratica.
«No, no, non devo urlare, è solo che dovrei
provare insieme ai miei colleghi, sai per studiare bene gli attacchi, per
capire se ci ritroviamo nei rispettivi ruoli…», continua a girarci intorno.
«Non ti ho mai impedito neppure di
provare con i tuoi colleghi. È un’opera importante, immagino dobbiate porre una
particolare attenzione alle pause e ai diversi interventi. Provare in gruppo mi
sembra la soluzione più logica».
«Ok, sono felice che la pensi così», si
rasserena subito.
«Non era una novità. Quello che non
capisco è quale sarebbe il favore di cui avresti bisogno da me».
«Ah, sì», sembra quasi che qualsiasi
cosa fosse, le sia sfuggita di mente per poi ricomparire all’improvviso. «Be’,
nessuno ha l’alloggio disponibile per le prove e così avevamo pensato di
riunirci tutti qui».
Rimango ferma a guardarla per qualche
secondo. Non sono sicura di aver capito bene le parole che sono appena uscite
dalla sua bocca.
«Non sarà per molto tempo, solo due o
tre ore al massimo, domani pomeriggio. Nessuno urlerà, promesso», cerca di
convincermi.
«No, no, no», è la mia risposta secca.
«Non esiste che qualche estraneo metta piede qui dentro». Ho già faticato ad
ambientarmi in un posto nuovo, per crearmi la mia routine, non sopporterei di
vedere il mio rifugio preso d’assalto da sconosciuti.
«Faith, non te lo chiederei se avessi
un’alternativa, lo sai benissimo», mi supplica, incrociando le dita e
avvicinandosi a me col suo sguardo da cerbiatto.
«No, no, no», ripeto, quasi spaventata
alla sola idea.
«Potresti chiuderti nella tua stanza.
Non ci sentiresti neppure», insiste lei. «Oppure potresti uscire, andare a
studiare in biblioteca. Sai, il mondo pullula di gente in salute che esce, che
vive all’aperto, fuori casa. Fuori è fantastico».
«Non dire stupidaggini. Se fuori fosse
così fantastico come dici, perché l’uomo ha cercato per migliaia di anni la sua
dimora dentro?», non può ignorare secoli di evoluzione.
«Oh, Faith, ma è ovvio, per dare lavoro
agli architetti d’interni», minimizza la cosa con un gesto veloce della mano.
«Ma prometto che pulirò tutto dopo. Disinfetterò da cima a fondo, farò
arieggiare il salotto, non rimarrà traccia neanche di un odore sgradito, nulla.
Ti prego!». Accidenti. C’è una voce dentro di me che in questo momento sta
urlando di non farle fare una cosa del genere. Vorrei tanto darle ascolto, ma
non so il perché, alla fine non lo faccio. Abbasso lo sguardo sulle mie
ginocchia, stringo le mani a pugno e prendo un respiro profondo.
«Veramente non hai altra alternativa?»
«Veramente», risponde speranzosa.
«E disinfetterai tutto?»
«Tutto. Promesso».
«Due ore, non di più. Uscirò a prendere
freddo alle quindici e rientrerò alle diciassette e un quarto. Non voglio
vedere nessuno», le intimo, puntandole un dito ammonitore davanti agli occhi.
«Non vedrai nessuno!», promette con una
mano sul cuore. «Grazie, grazie, grazie!!!», sorride e allarga le braccia,
pretendendo un abbraccio. Nooo, questo è troppo. Mi alzo in fretta, prima che
riesca ad agguantarmi nella sua presa.
«Prego», le dico soltanto, prima di
riprendere la mia borsa e rifugiarmi nella mia stanza. La convivenza è davvero
difficile a volte.
Materiale coperto da copyright, la riproduzione in parte o per intero è vietata senza il consenso dell'autore.